«Lʼaltro è Orazio satira, che viene». Orazio Flacco fu di nazione assai umile e depressa, percioché egli fu figliuolo dʼuomo libertino: e «libertini» si dicevan quegli, li quali erano stati figliuoli dʼalcun servo, il quale dal suo signore fosse stato in libertá ridotto, e chiamavansi questi cotali «liberti»; e fu di Venosa, cittá di Puglia, e nacque sedici anni avanti che Giulio Cesare fosse fatto dettatore perpetuo. Dove si studiasse, e sotto cui, non lessi mai che io mi ricordi; ma uomo dʼaltissima scienza e di profonda fu, e massimamente in poesia fu espertissimo. La dimora sua, per quello che comprender si possa nelle sue opere, fu il piú a Roma, dove venuto, meritò la grazia dʼOttavian Cesare, e fugli conceduto dʼessere dellʼordine equestre, il quale in Roma a queʼ tempi era venerabile assai. Fu, oltre a ciò, fatto maestro della scena; e singularmente usò lʼamistá di Mecenate, nobilissimo uomo di Roma ed in poesia ottimamente ammaestro. Usò similmente quella di Virgilio e dʼalcuni altri eccellenti uomini; e fu il primiero poeta che in Italia recò lo stile deʼ versi lirici, il quale, come che in Roma conosciuto non fosse, era lungamente davanti da altre nazioni avuto in pregio, e massimamente appo gli ebrei; percioché, secondo che san Geronimo scrive nel proemio libri Temporum dʼEusebio cesariense, il quale esso traslatò di greco in latino, in versi lirici fu daʼ salmisti composto il salterio. E questo stile usò Orazio in un suo libro, il quale è nominato Ode. Compose, oltre a ciò, un libro chiamato Poetria, nel quale egli ammaestra coloro, li quali a poesia vogliono attendere, di quello che operando seguir debbono e di quello da che si debbon guardare, volendo laudevolmente comporre. Negli altri suoi libri, sí come nelle Pistole e nei Sermoni, fu acerrimo riprenditore deʼ vizi; per la qual cosa meritò dʼessere chiamato poeta «satiro». Altri libri deʼ suoi, che i quattro predetti, non credo si truovino. Morí in Roma dʼetá di cinquantasette anni, secondo Eusebio dice in libro Temporum, lʼanno trentasei dello ʼmperio dʼOttaviano Augusto.
«Ovidio è il terzo». Publio Ovidio Nasone fu nativo della cittá di Sulmona in Abruzzo, sí come egli medesimo in un suo libro, il quale si chiama De tristibus, testimonia, dicendo:
Sulmo mihi patria est, gelidis uberrimus undis,
milia qui decies distat ab Urbe novem.
E, secondo che Eusebio in libro Temporum dice, egli nacque nella patria sua il primo anno del triumvirato di Ottaviano Cesare: e fu di famiglia assai onesta di quella cittá, e dalla sua fanciullezza maravigliosamente fu il suo ingegno inchinevole agli studi della scienza. Per la qual cosa, sí come esso mostra nel preallegato libro, il padre piú volte si sforzò di farlo studiare in legge, sí come faceva un suo fratello, il quale era di piú tempo di lui; ma, traendolo la sua natura agli studi poetici, avveniva che, non che egli in legge potesse studiare, ma, sforzandosi talvolta di volere alcuna cosa scrivere in soluto stile, quasi senza avvedersene, gli venivano scritti versi; per la qual cosa esso dice nel detto libro:
Quidquid conabar scribere, versus erat.
Della qual cosa il padre, dice, che piú volte il riprese, dicendo:
Saepe pater dixit: – Studium quid inutile temptas?
Maeonides nullas ipse reliquit opes. —
Per la qual cosa, eziandio contro al piacer del padre, si diede tutto alla poesia; e, divenuto in ciò eruditissimo uomo, lasciata la patria, se ne venne a Roma, giá imperando Ottaviano Augusto, dove singularmente meritò la grazia e la familiaritá di lui; e per la sua opera fu ascritto allʼordine equestre, il quale, per quello che io possa comprendere, era quel medesimo che noi oggi chiamiamo «cavalleria»; e, oltre a ciò, fu sommamente nellʼamore deʼ romani giovani.
Compose costui piú libri, essendo in Roma, deʼ quali fu il primo quello che chiamiamo lʼEpistole. Appresso ne compose uno, partito in tre, il quale alcuno chiama Liber amorum, altri il chiamano Sine titulo: e può lʼun titolo e lʼaltro avere, percioché dʼalcunʼaltra cosa non parla che di suoi innamoramenti e di sue lascivie usate con una giovane amata da lui, la quale egli nomina Corinna; e puossi dire similmente Sine titulo, percioché dʼalcuna materia continuata, della quale si possa intitolare, non favella, ma alquanti versi dʼuna e alquanti dʼunʼaltra, e cosí possiamo dir di pezzi, dicendo, procede. Compose ancora un libro, il quale egli intitolò De fastis et nefastis, cioè deʼ dí neʼ quali era licito di fare alcuna cosa e di quegli che licito non era, narrando in quello le feste eʼ dí solenni deglʼiddii deʼ romani, ed in che tempo e giorno vengano, come appo noi fanno i nostri calendari; e questo libro è partito in sei libri, nei quali tratta di sei mesi: e per questo appare non esser compiuto, o che piú non ne facesse, o che perduti sien gli altri. Fece, oltre a questo, un libro, il quale è partito in tre, e chiamasi De arte amandi, dove egli insegna e aʼ giovani ed alle fanciulle amare. E, oltre a questo, ne fece un altro, il quale intitolò De remedio, dove egli sʼingegna dʼinsegnare disamorare. E fece piú altri piccioli libretti, li quali tutti sono in versi elegiati, nel quale stilo egli valse piú che alcun altro poeta. Ultimamente compose il suo maggior volume in versi esametri, e questo distinse in quindici libri; e secondo che esso medesimo scrive nel libro De tristibus, convenendogli di Roma andare in esilio, non ebbe spazio dʼemendarlo.
Appresso, qual che la cagion si fosse, venuto in indegnazione dʼOttaviano, per comandamento di lui ne gli convenne, ogni sua cosa lasciata, andare in una isola, la quale è nel Mar maggiore, chiamata Tomitania: ed in quella relegato da Ottaviano, stette infino alla morte. E questa isola nella piú lontana parte che sia nel Mar maggiore nella foce dʼun fiume deʼ colchi, il quale si chiama Phasis. E in questo esilio dimorando, compose alcuni libri, sí come fu quello De tristibus, in tre libri partito. Composevi quello, il quale egli intitolò In Ibin. Composevi quello che egli intitola De Ponto, e tutti sono in versi elegiati, come quelli che di sopra dicemmo.
La cagione per la quale fu da Ottaviano in Tomitania rilegato, sí come egli scrive nel libro De tristibus, mostra fosse lʼuna delle due o amendue; e questo mostra scrivendo:
Perdiderunt me cum duo crimina, carmen et error.
La prima adunque dice che fu lʼaver veduta alcuna cosa dʼOttavian Cesare, la quale esso Ottaviano non avrebbe voluto che alcuno veduta avesse: e di questa si duol molto nel detto libro, dicendo:
Cur aliquid vidi, cur lumina noxia feci?
Ma che cosa questa si fosse, in alcuna parte non iscrive, dicendo convenirgliele tacere, quivi:
Alterius facti culpa silenda mihi est.
La seconda cagione dice che fu lʼavere composto il libro De arte amandi, il quale pareva molto dover adoperare contro aʼ buon costumi deʼ giovani e delle donne di Roma. E di questo nel detto libro si duol molto, e quanto può sʼingegna di mostrare questo peccato non aver meritata quella pena. Alcuni aggiungono una terza cagione, e vogliono lui essersi inteso in Livia moglie dʼOttaviano, e lei esser quella la quale esso sovente nomina Corinna; e di questo essendo nata in Ottaviano alcuna sospezione, essere stata cagione dello esilio datogli. Ultimamente, essendo giá dʼetá di cinquantotto anni, lʼanno quarto di Tiberio Cesare, secondo che Eusebio in libro Temporum scrive, nella predetta isola Tomitania finí i giorni suoi, e quivi fu seppellito.
Sono nondimeno alcuni li quali mostrano credere lui essere stato rivocato da Ottaviano a Roma: della qual tornata molti romani facendo mirabil festa, e per questo a lui ritornante fattisi incontro, fu tanta la moltitudine, la quale senza alcuno ordine, volendogli ciascun far motto