– Oh, non importa, c'è un'altra scala. Il guaio è che mette in una via troppo vicina all'ingresso principale. Uno che esca di qua e svolti nella strada di fianco… capirai!
– Capisco, può indovinare i tuoi segreti di Stato, o di Banca. Anzi, diciamo addirittura di Banca, per restare nel genere femminile. —
Arrigo fece un gesto di ragazzo contrito, e andò nella camera attigua. Due minuti dopo era di ritorno.
– Del resto, – disse il Gonzaga, tanto per riattaccare il discorso, – un bravo giovanotto, quel Ceprani?
– Ah, sì, lascia che ti sgridi, caro zio! – rispose Arrigo, mettendosi sul grave. – Che prodigalità son queste? Hai le mani bucate, a quanto pare. Sei appena arrivato in Roma, e già ti adatti all'ufficio di vittima. Caleranno i corvi, non dubitare, caleranno a centinaia, per levarti i pezzi. Qui, dopo l'acqua, delle fontane, non c'è altra abbondanza che di corvi.
– Non mi credere troppo stolido, via! – replicò il Gonzaga. – Una volta non conta per uso. Ma non è tuo amico, questo Ceprani?
– Amico, sì, non lo nego. Ma gli amici non hanno da esser mica vampiri, per succhiarci il nostro sangue. Caro zio, ci ho una massima, io: il cielo per tutti, e ognuno per sè. A buon conto, io non ho mai chiesto nulla a nessuno. —
E il viso di Arrigo aveva preso una espressione di durezza, che diede nell'occhio, ma più ancora sui nervi, al vecchio Gonzaga. Non era più quello, perbacco, il viso di sua sorella Cecilia.
– Ne sei ben sicuro? – diss'egli, dopo un istante di pausa. – Ed anche senza ricorrere alla borsa altrui, non ci sono servigi che ci è mestieri qualche volta di fare, o di chiedere? Le amicizie, così belle nel loro disinteresse, in certi momenti, e senza secondi fini, non sono esse un capitale che si sfrutta?
– È un'altra cosa; – rispose Arrigo. – Il Ceprani è mio amico. Spenda la mia amicizia, la faccia valere, ma non tocchi la mia borsa.
– Sei troppo rigoroso; – notò il vecchio. – Ma che uomo è costui?
– Un buon diavolo, ed anche onesto, per quel che fa la piazza; ma di affari s'intende com'io di greco, che n'ho avuta una tintura al Liceo. Aggiungi che ha una mano così disgraziata, da guastare tutto quello che tocca. Ha sempre qualche preziosa notizia, per certe sue attinenze con uomini di governo, ed io ne cavo profitto… facendo tutto il contrario di ciò ch'egli fa.
– Vedi dunque che tu lo spendi; in qualche modo fai capitale di lui.
– Eh, se tu la intendi così, caro zio, tutti avranno diritto ad una parte della mia sostanza, mentre io so di non doverla che a me.
– Ah, sì, parliamone un poco, – disse il vecchio, cui capitava la palla al balzo. – Ti sei dunque fatto uomo di banca?
– Come vedi, lavoro, senza affaticarmi troppo.
– E la giurisprudenza?
– Da banda. Ho compiuti i miei studi; serviranno a tempo opportuno, quando sarà il caso di pensare agli onori. Anche con l'avvocatura si arriva; ma il mondo mormora. Si ha invidia degli avvocati, caro zio, e non c'è politicante da caffè che non tiri la sua sassata ai ciarloni. Per altra via, e più sicura, io fo conto di arrivare.
– Arrivare! E dove?
– Zio! – sclamò Arrigo, guardando il vecchio con aria di stupore. – Sei tu che me lo domandi? Tu, che sei arrivato… dall'India?
– Sì, dall'India a Brindisi, e via discorrendo, – rispose il Gonzaga. – Ma tu, dove diamine vuoi arrivare?
– Alla fortuna, alla potenza, alla felicità.
– Egregiamente, e lo studio ti ci avrebbe condotto, per una via più lunga, lo concedo, ma più sicura, e con miglior compagnia. Perdonami la franchezza.
– È la tua opinione; – rispose Arrigo, inchinandosi, – ma non è egualmente il tuo esempio. Sicuro: che cosa hai fatto tu, mio ottimo zio? È forse lo studio delle leggi, son forse i libri, che ti hanno dato ricchezze e buon nome per giunta?
– Non parliamo di me; io le ho fatte grosse.
– Parliamone, anzi. Ti sei accorto un giorno di avere sprecata la tua giovinezza e le tue sostanze in parecchie follìe…
– Tra le quali un paio di guerre per l'indipendenza del mio paese; ti prego di metterle in conto; – interruppe il Gonzaga.
– Ci venivo dopo, – replicò Arrigo prontamente, – e volevo anche aggiungere una pena di cuore…
– Lascia stare, non frugar nelle ceneri! – gridò il vecchio, turbato.
– Perdonami, zio; me ne aveva fatto cenno mia madre. Infine, ecco qua: io, ammaestrato dagli esempi della tua prima giovinezza e non avendo più nobili follìe da commettere, poichè ho avuta la… disgrazia di nascere troppo tardi, incomincio da dove tu hai cangiato sentiero. So bene quel che vuoi dirmi; le gaie spensieratezze, il vivere conforme alla propria età, l'aspettare la fortuna, facendo versi cattivi e abbaiando alla luna! Il secolo invecchia, caro zio, e non vuol più saperne, di questi perditempi. “Essere o non essere, ecco il punto.„ Vedi? Se tu non ami la prosa, questa è poesia, e di un sommo. Il mondo è di chi se lo piglia; e perchè lo lascerei afferrare da tanti, mentre anch'io sento di avere una mano, che può far servizio come quella degli altri? Ogni cosa a suo tempo, lo capisco; ma chi ha tempo non aspetti tempo. Fare e far subito: e poichè il denaro è il nerbo della guerra, pensiamo al denaro. C'erano degli uomini, sai, i quali si credevano ogni cosa al mondo, solo perchè avevano il denaro, e, mentre gli altri guardavano fidenti all'orizzonte lontano, essi vogavano sodo, alla galeotta, tirando bravamente a sè. Anch'io ho imparato il loro giuoco, e c'est pas plus malin que ça. Non sono io un savio ragazzo? Credevi di dover venire a frenarmi, fors'anche a trattenermi sull'orlo del precipizio, ed ecco, tu trovi invece che io vado di buon passo per la strada maestra. Non avrai che a lodarmi, zio, e mi favorirai più volentieri in ciò che io sono per chiederti. Perchè, vedi, di te ho bisogno davvero; non mi vergogno di ricorrere a te, e sarò lieto di chiamarmi tuo debitore. —
Il discorso era stato brutto, o almeno poco simpatico; ma la chiusa era molto migliore.
– C'è ancora qualche cosa, lì dentro; – pensò lo zio Cesare, che già aveva incominciato a scandalizzarsi, fiutando l'egoista.
E rifacendosi la bocca in quella chiusa più garbata, rispose:
– Sì, per l'appunto, che cosa volevi da me? Se non ti occorrono consigli di saviezza e non hai bisogno ch'io paghi i tuoi debiti, in che altro può esserti utile uno zio? fammi il piacere di dirmelo.
– Ecco, in poche parole ti spiego ogni cosa; – replicò il giovinotto.
Ma proprio in quel punto, un'altra scampanellata all'uscio di casa ruppe il filo del discorso di Arrigo.
– Diamine! – esclamò lo zio Cesare. – Ecco un altro importuno.
La maliziosa figura di Happy comparve poco stante sul limitare.
– Il signor conte Morati di Castelbianco; – disse il servitore, tirandosi da un lato.
Arrigo si era prontamente alzato.
– Perdonami, zio; – diss'egli inquieto; – proseguiremo il nostro discorso più tardi.
– O lo incominceremo; – commentò lo zio; – perchè finora non mi avevi detto nulla. —
III
Il nuovo venuto era un signore smilzo, dalla faccia scarna e dalla pelle risecchita, che pareva di cartapecora; ma aveva i capelli e i baffi neri morati, veramente degni del suo cognome. Gli occhi erano grigi, e non dovevano vederci molto, perchè il conte, abbassando la testa con un atto che pareva di consuetudine, e che lo aiutava a nascondere nella cravatta le grinze del collo, si piantava, entrando nello studio di Arrigo Valenti, una