Arrigo il savio
I
L'ultimo giorno di gennaio dell'anno 1882, un signore, alto della persona, dal volto abbronzato e dai baffi grigi, scendeva di carrozza, sulle prime ore del mattino, come a dire fra le otto e le nove, davanti ad un portone della via Nazionale, in Roma. Aveva l'aria assai nobile, era vestito con severa eleganza e andava diritto, con soldatesca balìa, come un colonnello in abito cittadino, che sotto le spoglie inusitate lascia indovinare i suoi trent'anni di spallini. Entrato nell'androne, e osservata non senza stupore la magnificenza delle scale, ascese al secondo piano, dove era scritto, su d'una piastra di porcellana, “Cav. Arrigo Valenti.„
– Cavaliere! – esclamò il signore dai baffi grigi. – O che diavolo ha fatto il mio signor nipote, per esser nominato cavaliere? Dei debiti, m'immagino. E saranno certamente assai più di quelli che mi aveva lasciati sospettare la sua lettera ad uno zio che non ha mai visto nè conosciuto. Ahimè! Prevedo, – conchiuse egli, sospirando, – che pagherò anche questa bella piastra di porcellana del Ginori. —
Tirò allora la maniglia del campanello, e un minuto dopo fu aperto l'uscio da un servitore in mezza livrea.
– Chi cerca? – domandò questi.
– Il signor Arrigo Valenti.
– Il cavaliere, – ripigliò il servitore, battendo sul titolo, – non riceve ancora.
– Ah, mi rincresce. Sono arrivato stamane col treno delle sette, e credevo…
– Se il signore vuol lasciar detto il suo nome…
– Volentieri; ecco qua. —
Così dicendo, il signore dai baffi grigi aveva cavato di tasca il portafogli, per prendere un biglietto di visita. Ma ci aveva troppi biglietti di banca: e quelli di visita, o erano affogati nel mucchio dei loro più degni fratelli, o erano stati dimenticati a casa.
– Bene! – esclamò il signore, facendo un atto di rassegnazione, dopo due o tre d'impazienza. – Non ne trovo. Dite al vostro padrone che è passato a cercarlo Cesare Gonzaga. —
Il servitore sgranò tanto d'occhi, a mala pena ebbe udito quel nome, e s'inchinò per modo da far credere che volesse piegarsi in due.
– Perdoni, Eccellenza!.. Si dia la pena d'entrare! —
Il signore sorrise sotto i baffi grigi ed entrò. Quell'altro, richiuso prontamente l'uscio, corse a sollevare il lembo di una portiera in fondo all'anticamera.
– Per di qua, signor marchese, per di qua! – diceva egli, frattanto, inchinandosi da capo. – Questo è lo studio del padrone.
– Marchese! – brontolò il vecchio signore. – Per chi mi hai preso?
– Scusi, illustrissimo! Non è lei lo zio del cavaliere Valenti?
– Suo zio, certamente.
– O allora?
– Allora saprai, – disse gravemente il vecchio signore, – che si può essere zii, senza essere marchesi.
– Ah, ah, sicuro! – rispose il servitore, facendo bocca da ridere. – Ma egli è che i Gonzaga… scusi, illustrissimo! I Gonzaga sono… i Gonzaga, e portano d'oro con tre fasce di nero. —
Il vecchio guardò con atto di stupore quel servo, che gli blasonava con tanta sicurezza lo scudo.
– Come? – disse poi; – saresti un dilettante di araldica?
– Che vuole, illustrissimo! – replicò umilmente quell'altro. – Servendo i gran signori, ci si piglia anche un'infarinatura di quest'arte.
– Di bene in meglio! Sentimi dunque. Hai tu veduto mai uno stemma come questo: cuor d'oro in campo d'argento?
– Ella scherza, illustrissimo. Non si può metter mica metallo sopra metallo.
– Neanche in tasca?
– Oh, questo poi sì.
– Ottimamente; vedo che la sai lunga, giovinotto! Ma il tuo padrone…
– Vado ad annunziarla subito. Vuol essere contento il cavaliere, quando saprà che è arrivato suo zio. Da tre giorni l'aspetta con impazienza.
– Eh, lo credo; va dunque. —
Il servitore si avviò sollecito, con una gran voglia di fregarsi le mani.
– Ecco uno strano capriccio; – pensava egli. – Non vuole esser chiamato marchese. Capisco che potrebbe pretendere il titolo di duca. Ma infine, certi nomi storici hanno il titolo sottinteso. —
Fatta questa peregrina scoperta, il signor Happy (pronunziate Hèppi) si allontanò dallo studio. Rimasto solo, il signor Cesare Gonzaga, non marchese, nè duca, si avvicinò alla finestra, tanto per fare qualche cosa, aspettando.
– Chi conosce più Roma, specie da queste parti? – mormorò egli, guardando la strada.
– Trentatrè anni! Ah, come passa il tempo, quando i più belli anni sono sfumati! Ma che cosa è la vita? Le falde, i primi passi, i primi giuochi, le panche del collegio… poi l'università, un paio di duelli, quattro amori bugiardi e uno che si vorrebbe creder vero… qualche follìa, molti disinganni, molte amarezze… e allora una forte risoluzione! Nessuna via di mezzo; o il nuovo mondo, o l'antico; o l'America, o l'Asia. E là il lavoro, il febbrile lavoro, gli stenti, le privazioni, e qualche volta la fortuna, che un altro c'inghiottirà, come noi abbiamo inghiottita quella dei padri! Ecco la mia vita. Ed ecco, meno l'Asia e l'America, la vita del mio signor nipote; già l'ho indovinato dal gran desiderio ch'egli ha di vedermi. Avevo giurato di non rimetter piede in Roma, ed eccomi qua. Bei giuramenti! Ma come fare, con questo ragazzo che prega, invocando la memoria di sua madre, della mia povera sorella, che non dovevo più rivedere? Di certo le somiglia, perchè i maschi tengono sempre della madre. Poveraccio! Purchè non le abbia fatte troppo grosse! Qui, per altro, c'è lusso; ci si sente agiatezza. Chi sa? Forse è un quartiere d'affitto. E ci hanno messa anche la cassa forte. —
Il savio lettore avrà capito che Cesare Gonzaga si era già allontanato dal vano della finestra, per dare una scorsa in giro e una guardata allo studio del suo caro e sconosciuto nipote.
– Arnese di parata, la cassa forte! – borbottò egli, proseguendo. – Gli strozzini le conoscevano, ai tempi miei, queste alzate d'ingegno degli studenti di legge. Ma il mio signor nipote non è più studente; ha la sua laurea da due anni, da tre… che so io? Gran legista! Grande giureconsulto, ha da essere! Ci fosse almeno la libreria, per dar negli occhi ai clienti! Ah, ecco un volume sulla scrivania. È il codice di commercio; meno male! Ma se valesse dugento lire, come certi libri rari, sarebbe ancor qui? —
Come vedete, il signor Cesare Gonzaga non si lasciava confondere da tutta quella apparenza di lusso severo, e ci odorava il quartiere ammobiliato, e il conto da pagare ad un troppo credulo fornitore; fors'anco a più d'uno.
Le sue malinconiche osservazioni furono interrotte dal ritorno del servitore.
– Or bene? – gli chiese.
– Mi duole, illustrissimo…
– Dorme, ho capito; – ripigliò il signor Cesare. – Infatti, sono appena le nove del mattino. Che ora è questa mai, da venire in cerca di un nipote?
– O che, le pare? S'è alzato anzi per tempo e, se non fosse stato un certo negozio, sarebbe anche già andato a fare la sua solita trottata mattutina fuori di porta Pia.
– Anche il cavallo pagheremo; – pensò lo zio, sospirando. – Purchè non sia bolso, come certi cavalli che appoggiavano a noi! Ma allora, – soggiunse ad alta voce, – che cos'è che lo trattiene? —
Il servitore nicchiava un pochettino, ma sorrideva anche, mostrando negli occhi maliziosi il desiderio di farsi cavare i segreti di bocca.
– Veda, non so se debbo dire… Infine, non ho neanche potuto giungere fino a lui, perchè l'uscio di comunicazione è chiuso.
– Comunicazione! con che!
– Ecco, – ripigliò il servitore con aria di mistero, – con lei, che è suo zio, si può dire. Dev'essere… in conferenza.
– Già, capisco,