Il principe di Caprenne avea pensato più volte, in certi momenti, ch’ella avesse della cortigiana, e non s’ingannava.
Sedettero dinanzi al fuoco: la colazione era preparata sopra un piccolo tavolino di lacca, che appena li separava.
La principessa mangiava sempre con un vero appetito da marinaro.
Il principe soleva appena toccare le vivande.
– Ma qui non si beve? – esclamò a un tratto la principessa, ilare come una giovinetta che un giorno di vacanze va a fare un picnic con le sue piccole compagne.
E anche il principe era dell’umore più giocondo, e, diremo quasi, più infantile.
La principessa si alzò: egli la seguiva: scambiarono un bacio, poichè le loro teste s’incontrarono, mentre la principessa si chinava per trarre da un piccolo stipo giapponese, tutto rabeschi d’oro, con un grande ibis bianco, dal becco roseo, dipinto nel mezzo, una bottiglia di rarissimo Château-Yquem.
Il bel liquido dorato, bevanda degna dei numi e degl’innamorati, fu versato dal principe nei bicchieretti verdi di Baccarat; ma il principe vi accostò appena una o due volte le labbra: la principessa bevve, a poco a poco, tutta la bottiglia.
Gli sguardi più vivaci del solito, le guancie rosee, le labbra d’un vivo corallo, le belle braccia nude, che accostavano ogni tanto alla bocca la posata o il bicchiere, la principessa spirava la forza, il rigoglio della vita, il pieno sviluppo e il pieno godimento di tutte le facoltà sensuali.
Il tavolino fu presto rimosso: la principessa colmò il principe di carezze: sembrava frenetica, una baccante.
Egli l’adorava, senza limiti, e la stringeva fra le sue braccia come una divinità.
Poeta, metteva in quell’amplesso tutta la poesia di cui era capace.
L’altra, di tratto in tratto, con la voce un po’ rauca, che avea acquistato per gli eccessi della tavola, e forse per gli altri eccessi, frammezzava a quel delirio parole, che smorzavano ogni poesia.
Erano andati a sedere, o eran caduti su un sofà: la principessa tenea in mano la bionda e delicata testa del principe, la cui fisonomia era un po’ sparuta per la notte passata al ballo e la veglia prolungata…
– Io voglio da te.... – disse la principessa col suo solito tono imperioso.
– Di’ pure, – mormorò il principe, che le ricingeva i fianchi robusti.
Ella avea fatto cadere artificiosamente a’ suoi piedi i guarnelletti di trine: tutto ciò che le era d’impedimento al piacere.
– Voglio, – gli sospirò in un alito caldissimo di passione, che lo facea fremere, – voglio tu non viva più ozioso.... Io sono ambiziosa per te.... per me.... Non siamo abbastanza in alto: non abbiamo ancora abbastanza gli occhi di tutti su di noi.
Così parlava la donna più ammirata che avesse Napoli.
– Mi sembra, – rispose il principe drizzandosi, – che la nostra condizione sia tutt’altro che umile: sia piuttosto invidiabile.... Forse noi non conosciamo ancora dov’è propriamente la felicità, non sappiamo gustarla.... Se potessimo far un po’ di solitudine intorno a noi, vivere l’uno per l’altro.... Tu mi parli d’ambizione? – io ne avrei una sola, – continuò il principe, – quella di avere dei figli, di educarli con te: di vivere insomma per la famiglia e nella famiglia....
Enrica alzò le spalle in atto di disdegno, anzi di sprezzo.
La luce del giorno entrava ormai nel salotto assai piena e si confondeva con quella che mandavano i lucignoli delle candele. Fra quelle due luci la fisonomia del principe appariva più disfatta; la sua gracilità, per la stanchezza, sembrava maggiore.
Invece la principessa, col suo roseo incarnato, con la forza delle sue linee, resisteva agli sbattimenti di quelle luci; la sua fisonomia, anzi che scomposta, era serena, riposata, come quella di un animale potente che ha soddisfatto una parte de’ suoi appetiti.
– Non era questo l’uomo che ci voleva per me! – essa agitava in quel punto nella mente, guardando il principe.
E pensava ad un uomo, press’a poco come il guardacaccia, con cui avea un giorno sorpreso Cristina, senza vesti, nella stanza del castello sfarzosissima, ove i due si erano riparati.
Quella scena le tornava spesso alla mente.
– Ma parla pure.... ti ripeto, – bisbigliava il principe, baciandole la spalla, bianchissima, rimasta nuda, e appoggiandovi la testa.... – parla delle tue ambizioni....
– Il mio desiderio, – replicò la principessa, pronunziando spiccatamente ogni parola, – sarebbe che tu ripigliassi la tua carriera: tornassi nella diplomazia…
– Sei stanca di Napoli? – domandò il principe, sorridendo. – Vuoi viaggiare, lasciar la tua bella casa?
– Oh, no, – aggiunse freddamente la moglie. – Io rimarrò a Napoli: tu partirai solo....
Il principe fu scosso da tale proposta.
Ella, dunque, benchè fossero sì giovani, e da sì poco tempo uniti in matrimonio, voleva già una separazione!
La libertà ch’egli le lasciava, non le sembrava sufficiente: voleva sciogliere anche quel leggerissimo freno, che per una donna civetta e sensuale può esser la presenza di un marito buono, confidente, molto cortese, ma non stupido.
Le parole della moglie dettero al principe nel cuore: non si poteva esprimere, con maggior indifferenza, la più assoluta disaffezione, la bramosia di sbarazzarsi di lui.
Tutta quella scena di amore, di frenetica passione, ella l’aveva simulata per indurlo a’ suoi intenti.
E tale era stato il disegno di lei: nella ebbrezza, nello snervamento dei piaceri, strappargli una promessa.
Il principe era, come abbiamo detto, raffinatamente dissoluto. Guardò la moglie, e gli parve più bella, o più desiderabile, nella sua perfidia. Ella, con occhiate di fuoco, lo dardeggiava, accostava le labbra a quelle di lui, come se volesse dargli il premio della sua sottomissione, che già si aspettava. Nel protender le braccia, scoprì viepiù il suo seno eretto, marmoreo, e pur tutto palpitante, roseo, vivo nei suoi floridissimi turgori. Benchè sopraffatto da una certa languidezza, stanco, e benchè il consiglio impreveduto e crudele della moglie lo avesse moralmente abbattuto, ebbe un’idea da uomo dissipatissimo.
Enrica aspettava egli rispondesse alla sua proposta, e si aspettava una vittoria: a lui balenò un’idea di piacere, di vendetta. Ella voleva burlarsi di lui: egli si sarebbe burlato di lei, l’avrebbe spinta a un’altra delle sue scene di cortigiana, di finta, folle passione: l’avrebbe assaporata, goduta a tratti a tratti, poi le avrebbe riso in faccia: l’avrebbe forse schiaffeggiata, costretta a domandargli perdono in ginocchio, trascinata pe’ capelli sul tappeto della stanza, se gliene fosse venuto talento.
Malgrado la sua delicatezza, la sua cortesia di gentiluomo, egli, eccitato dalla voluttà, dallo sdegno, avea compiuto con donne, di una specie differente, per tenore di vita, dalla principessa, simili atti brutali.
Ella ne dovea esser sorpresa.
Infatti, all’invito di lui, ella ricominciò il suo folleggiare: ricominciò il delirare, il fremere del suo bel corpo. Egli la premeva a sè: ebbe la forza di darle un ultimo bacio, e con esso le lanciò una parola di amaro vilipendio.
Essa lo guardò sorridente, come se quella bruttura non l’avesse offesa: al contrario, fosse per lei un acuimento di gaudio, uno stimolo nuovo.
Egli non sapeva comprendere. La perversità, la corruzione morale della moglie, da lui qualche volta appena subodorata, non gli s’era mai svelata come agli incerti albori di quel mattino.
La principessa, quando si furono ricomposti, tornò a dirgli, col suo tuono di voce più carezzevole:
– Dunque, mi esaudirai.... Tornerai a riprendere il tuo posto nella diplomazia.... E otterrai certo,