Fin che questa non fosse venuta, ella temeva nuovi richiami, temeva nascessero viluppi insidiosi per lei. Non si curava d’altro. La falsa accusa, la calunnia contro Roberto?
Per lei non era nè calunnia, nè falsa accusa.
Che il conte di Squirace fosse caduto nel precipizio, per un movimento da lui fatto nella mischia, poco significava: Roberto l’avea sospinto a quel movimento; dunque Roberto era l’assassino del conte di Squirace. E poi egli non avea minacciato di morte anche lei?
Se il conte non fosse sopraggiunto, o ella avrebbe dovuto fuggir con Roberto, o sarebbe stata inabissata, com’egli le avea proposto, fra i gorghi del mare, ov’era stato gettato il conte.
Ella doveva la vita, l’onore alla cautela (la chiamava così) spiegata nell’invitar il conte a trarre in suo aiuto.
Di tal guisa, acquietava la triste sua coscienza; poichè anche i perversi hanno una coscienza, foggiata a lor modo.
E non le bastavano tutte le scuse, che già abbiamo addotte; un’altra ne allegava a sè stessa.
Roberto avea indegnamente abusato di lei: avea mancato al suo dovere di soggezione verso il duca: a forza l’avea voluta a sè, probabilmente, anzi sicuramente, ella arrivava a persuadersi, con lo scopo di rendersi padrone delle sue ricchezze: diventar l’erede del duca. Ardito e scellerato pensiero!
Quindi, si diceva, egli avea commesso, non uno ma più delitti, e il suo contegno assegnava non a nobiltà d’animo, ma a un tardo rimorso.
Costui dovea aver compreso che il sacrificio della vita era poco alla espiazione che gli spettava.
Nell’animo di Enrica, Roberto era ormai un gran delinquente, ed essa avea reso a tutti un segnalato servizio, sbarazzandoli da un uomo sì violento!
Chiuso il processo, i giudici si erano stretti in Camera di Consiglio per deliberare sulla sentenza.
E la discussione riuscì assai vivace.
Lì, fra’ suoi colleghi, il conte Guicciardi volle parlare aperto.
Non sosteneva l’assoluta innocenza di Roberto, ma quante lacune – disse – in questo processo!…
– Ammettiamo pure, – osservava, – il giovane marinaio sia stato provocato dal conte di Squirace. Sa la Corte il motivo di tale provocazione?… Che rapporti potevano esservi fra il gentiluomo e il figlio di Cicillo Jannacone?…
Come mai la duchessa, sì debole, sì ammalazzata, che avea appena partecipato alle feste in onore del padre, si era di tanto allontanata dalla sua villa e, sola, si trovava nel punto più remoto del parco? In che modo si erano incontrati proprio lì l’accusato ed il conte? Certo non casualmente....
L’accusato, mi direte, – aggiungeva a’ colleghi, – non ha voluto dare spiegazione alcuna, si è chiuso in un assoluto silenzio: non ha neppur consentito di parlare col suo avvocato, ha rifiutato di scegliersi altro avvocato che quello designatogli, per ufficio, dalla Corte.... Vedete voi in ciò un indizio di reità?… Io, egregi colleghi, sarei allora di parere diverso dal vostro.
Un reo, nega, attenua, si difende: qui abbiamo un uomo che, dinanzi al patibolo, nella probabilità di una condanna a morte, non cerca alcun espediente per sfuggir a tal fine; anzi vi va incontro quasi volenteroso. E voi non scorgete nulla d’insolito in questo uomo che tace? Ricordate ch’egli è un valoroso: ricordate che la sua condotta fu sino ad oggi esemplare, anzi fu, in certe occasioni, eroica: rammentate le testimonianze de’ suoi camerati che ci vennero a fare il suo elogio, commossi, piangenti. Ah, miei cari, non ci troviamo innanzi un volgare assassino! Dobbiamo piuttosto giudicare un fatto molto misterioso. Mancano le prove dell’innocenza: non abbondano quelle della reità, se si scrutina bene. Non è la prima volta che un soldato, un uomo d’onore e cavalleresco, tace, accetta la responsabilità di un delitto, infama il suo nome per salvar l’onore di una donna, per un motivo di suprema delicatezza....
– Il silenzio può essere il ripiego di un uomo abilissimo, appunto per indurre in questa credenza, – disse il presidente.
– Ma non quando si corre il rischio di una sentenza di morte! – esclamò l’altro magistrato, che condannava quasi sempre, lieto di contraddire al presidente.
Vi fu un breve silenzio.
Il conte Guicciardi si era alzato, e si era avvicinato alla finestra della stanza.
Tornò indietro, dopo aver guardato un po’ nella strada, distrattamente, mentre seguiva le sue meditazioni; si fermò dinanzi al presidente, e gli disse con piglio benevolo, ma assai risoluto:
– Io non ho il coraggio di firmare una sentenza di morte.... E non la firmerò!
– E neppur io! – aggiunse l’altro magistrato.
– Io aderisco, – disse affabilmente il presidente, – alle proposte de’ miei colleghi.
Roberto avea seguito con gli sguardi Enrica, fin che non si era richiusa dopo di lei la porta della sala d’udienza: era rimasto qualche tempo con gli occhi fissi su quella porta, come se attendesse che ella tornasse ancora addietro: poi l’angoscia più acuta gli avea di nuovo stretto il cuore ed era ricaduto nel suo solito torpore.
La sentenza fu molto ponderata: Roberto fu condannato all’ergastolo. Tutta Napoli comprese il dubbio che avea assalito i giudici.
Il vecchio Jannacone, venuto a Napoli, volea recarsi al cospetto del Re: chieder grazia: potè finalmente presentar la sua domanda, ma fu respinta.
Nella popolazione napoletana il processo destò una certa effervescenza, che poi subito quetò. Altre cure, altri dolori, e la tendenza all’oblìo, forse, la sola cosa che renda la vita tollerabile, fecero scordare il delitto del parco di Mondrone.
In breve non si parlò più nè di Roberto, nè del conte di Squirace.
Ciccillo Jannacone tornò al suo lavoro: stette mesi senza dir parola, sempre convinto della innocenza del figlio. Domandò di vederlo: gli fu negato. Egli non malediceva: non imprecava. Lo ritroveremo, a suo tempo.
Roberto era entrato nella prigione con un solo pensiero: – che ne sarebbe presto o tardi uscito, malgrado la condanna a vita, malgrado tutte le sentinelle, destinate a vegliar su di lui, malgrado tutti i rigori – e sarebbe tornato in Napoli, e magari a Mondrone, a esercitare le sue vendette.
Il desiderio di fuga dovea esser acresciuto in lui da un caso che esporremo nella seconda parte del nostro racconto: del quale questa prima parte forma come chi dicesse l’antefatto.
Circa sei mesi eran corsi dalla condanna di Roberto, ed Enrica una sera, parlando con la sua fida Cristina, le rivolgeva una domanda che le aveva già ripetuto in altre occasioni:
– Come sta la bambina?
Cristina avea saputo da Domenico che egli avea ritrovato la bambina morta nella carrozza.
Subito gli avea fatto giurare di non dir verbo: e avea cercato modo di allontanarlo dal castello. Gli fornì, di tratto in tratto, molti denari, che servirono a Domenico, com’ella prevedeva, per ingolfarsi nel suo vizio prediletto.
Vi furono scenate, scandali al castello: e finalmente Domenico fa pregato di trovarsi altro servizio: egli vi si adattò a malincuore, poichè a Mondrone i servitori stavano bene, ma dovè prendere commiato, non ostante che Cristina facesse sembiante di difenderlo a tutta possa; ed egli le professava la maggior gratitudine.
Ma Cristina, invece, avea soffiato nel fuoco: era stata la causa ch’egli dovesse abbandonare il buon servizio.
Essa avea più volte spinto Domenico ubriaco nelle stanze di Enrica, col pretesto ch’egli portasse i fiori degli splendidi giardini, a lui affidati: e quindi Enrica stessa avea sollecitato il duca perchè lo allontanasse.
Cristina l’avea poi consigliato a lasciar Napoli, ove godea sì mal nome: e Domenico che le obbediva, credendo ella volesse soltanto il suo bene, si allogò con una famiglia d’inglesi che partiva per la Calabria.
Anche Roberto, d’ordine superiore, forse per riguardo alla famiglia degli Squirace, forse per zelo di qualche assiduo