Ormai era lieta: viveva sicura, sulla nobiltà d’animo del giovane: aspettava di giorno in giorno apprendere ch’egli si fosse nella sua prigione tolta in qualche modo la vita.
Roberto le avea fatto pervenire, chi sa con qual mezzo, e valendosi certo di denaro ch’era riuscito a portare con sè, una breve lettera.
Le diceva, dopo un gravissimo insulto, in cui qualificava il carattere di Enrica, che egli non l’accusava, non le perdonava, la disprezzava. Aggiungeva, co’ suoi consueti impeti di selvatichezza: “ti potessi aver sola con me per pochi istanti, ti farei a brani, ti punirei della tua protervia, vendicherei il mio onore… ma ora non voglio contristare tuo padre, che è già sì afflitto per causa tua. Egli è costernato che sia stato ucciso un amico suo, sì vicino a lui, senza ch’egli abbia potuto difenderlo. Tu hai voluto straziare, a un tempo, il cuore del tuo sposo e di tuo padre. Ti ripeto che tu m’avevi sempre fatto paura.... Io non parlerò nel processo. Sono generoso e non voglio competere di arti tristi con una femmina vile; poi, appunto per la mia generosità, quali prove avrei contro di te? Possedevo un tuo biglietto: lo portavo sempre indosso: l’ho ingoiato prima che mi perquisissero!”
Ecco le parole che Enrica lesse e rilesse.
Roberto continuava, scrivendo:
“Sono certo che tu, conoscendo la mia indole, aspetti ch’io m’uccida per non sopravvivere a una condanna.... Tu non hai, da tempo, altra bramosia che quella del mio annientamento, della mia morte. Ma io vivrò!… sì, vivrò. E il cuore mi dice che un giorno avremo ad incontrarci. Te lo immagini quel momento di gioia… per me? Fremo al pensarci. Gli anni di miseria che devon passare non mi spaventano… se mi sarà concesso di vendicarmi.... Ma già, di che io vaneggio? Il delitto di cui sono accusato, ha, secondo la legge, a pena la morte.... Tu aneleresti ch’io morissi anche prima del processo per risparmiarti qualche ansietà....”
In un poscritto, queste parole, sulle quali eran cadute alcune lacrime:
“Non ti odio, ti amo sempre: la memoria di certi momenti, de’ piaceri ch’io ebbi da te mi agita anche in questa prigione.... Che fai? Pensa che, malgrado tutto, io ti adoro: e vorrei stringerti di nuovo tra le mie braccia.... Ti salverò ad ogni costo: anche a costo della mia vita.”
Enrica ripiegò la lettera e la mise nel suo seno per rileggerla più a suo agio. La lettera le piaceva: essa voleva destare grandi passioni: godeva irretire, far vittime con la sua bellezza, con la sua frenesia di piaceri; l’averla amata, desiderata, già costava la vita a due uomini, ad uno di essi anche l’onore: il solo ricordo di ciò sarebbe bastato ad aumentare l’acutezza de’ suoi godimenti in avvenire.
Vi hanno esseri sì pervertiti cui lo stesso pensiero del male serve di pungolo, di stimolo alle gioie materiali, le ravvalora, le rende più vive.
Nell’istruttoria del processo, Roberto, sottoposto a ogni molestia da un giudice ignorante e crudele, non volle dir verbo.
Non negò, non confessò di esser autore del delitto: tacque sempre: gli ripugnava, mal suo grado, fino il dichiarare ch’egli era innocente, per una tenera deferenza per Enrica.
Qualche volta era stato tentato di parlare, allorchè il pensiero gli correva a suo padre; ma rifletteva subito: A che prò? Quali testimonianze egli aveva? Chi avrebbe prestato fede più a lui che alla figlia del duca? E poi tutte le apparenze non erano contro di esso?
Dobbiamo pur dire ch’egli si apponeva assai male: e appunto nel suo contegno, nobilissimo, ma improvvido, avrebbe trovato la maggior causa della sua rovina.
Ed ecco perchè.
Già in Napoli, come fra gli stessi coloni tra’ quali era nato e che aveano assistito in sì gran numero alla denunzia del suo delitto, molti se gli manifestavano favorevoli, propensi a credere alla innocenza di lui. E ne vedremo la causa.
Vi fu il processo.
Roberto, dopo aver risposto alle domande generali, disse non aver altro da aggiungere.
Il vecchio magistrato, che presiedeva la Corte Criminale, lo trattò con molto affetto e tentò invano persuaderlo a discolparsi.
Quasi l’esimio giureconsulto, sulle prime, mostrava troppo palesemente la sua convinzione circa l’innocenza di Roberto.
Ma la convinzione fu subito distrutta dal contegno dell’accusato e il giudice divenne più rigido, e forse implacabile.
Roberto si presentò a’ giudici tutto vestito di nero. Era pallidissimo: ma la sua fisonomia onesta, aperta, la gentilezza del suo tratto, il suono della sua voce, l’espressione del suo sguardo contrastavano di troppo con l’accusa.
La sua tranquillità pareva a’ malevoli cinismo; ma gl’intelligenti, che lo vedevano senz’ombra di spavalderia, si sentivano inclinati a scernervi un indizio di sicura coscienza.
Fra i testimoni comparve naturalmente Enrica, attesa e ascoltata con un’impazienza febbrile.
Più di tutti, siccome il lettore può comprendere, era impaziente di rivederla Roberto.
Anch’essa comparve tutta vestita di nero: quasi tutta coperta di un velo.
Alle domande fattele studiò di mostrare che non potea rispondere: finse le mancasse la forza: dette in un pianto dirotto.
Alla fine, non riuscendo a ottenere ch’essa parlasse, il presidente lesse la deposizione scritta, e le domandò se ella la confermasse.
Col capo fece cenno di sì, e molto risoluta.
Lasciamo immaginare al lettore qual fosse l’animo di Roberto, che non la perdeva di veduta e ne seguiva l’interrogatorio con ineffabile perplessità.
– Non basta, – disse il presidente, con molta affabilità, alla duchessa, – accennare con gesti: la sola prova per la Corte risulta dalla affermazione orale esplicita. Debbo, dunque, domandare a V. S. dichiarazioni precise.
La giovane duchessa non si smarriva.
C’era, tra i giudici, un sapiente: il conte Guicciardi. Di nobilissima famiglia, le cui sostanze si erano molto assottigliate, il conte avea seguito con grande ardore lo studio delle leggi. Era un degno discepolo, a non dir un degno continuatore di quegli esimii giureconsulti della illustre scuola napoletana, alcuni dei quali alla sapienza accoppiarono l’amor di patria, e ne morirono martiri.
Il conte osservava con molta attenzione la duchessa. Egli non avea mai veduto chiaro in questo processo; sulle prime avea gridato che si faceva ingiustizia a un popolano, a un uomo di umil condizione per adulare la grande aristocrazia napoletana.
Ma il conte era tanto pusillanime quanto era dotto: e un gentiluomo, ben accetto al Principe, gli susurrò all’orecchio: cessasse dal turbare i colleghi con dubbi che acquistavano autorità perchè da lui mossi: esser giunta al Sovrano la voce della sua discrepanza coi colleghi: e averla S. M. in un colloquio familiare energicamente riprovata: non si compromettesse più oltre.
Il conte non avea la forza, la virtù di que’ giureconsulti napoletani che avean saputo, per la libera parola, per obbedire alla coscienza, sfidar il patibolo, e salirvi con animo intrepido: e fermò in sè di aver prudenza: in certe congiunture consigliera vilissima.
Pure, egli ch’avea molti generosi istinti non seppe in tutto acconciar l’animo a quella parte muta, devota, che facea di lui, in fondo, un carnefice.
Il contegno della duchessa avea ribadito i dubbi del giovane e acuto magistrato.
Non la perdeva d’occhio un solo istante.
La smania di scoprire la verità, nient’altro che la verità, in quel punto lo dominava e gli facea dimenticar tutto il resto.
Avrebbe voluto interloquire; lo riteneva per allora. un leggero riguardo verso il presidente.
Una o due abili domande avrebber modificato l’esito del processo: Enrica si sarebbe imbarazzata: sarebbe stato facile cogliere in mendacio la giovane duchessa.
Essa guardava con terrore que’ magistrati, temendo che la sottoponessero alla tortura di un interrogatorio minuto: ma sempre padrona di