«Voglio fare una telefonata. Ho il diritto di fare una telefonata. Datemi il mio cellulare.»
«Io faccio solo il mio dovere. La polizia è qui fuori della porta. Fra pochi secondi ne parlerai con gli agenti», fu la secca replica del giovane medico.
Il Dottor Giannini strappò di mano la provetta all'infermiera e si precipitò in laboratorio, preparò degli strisci su alcuni vetrini e allestì alcune colorazioni. Mise poi l'unico vetrino non colorato sotto la lente del microscopio per osservarlo a fresco.
«È incredibile! È pieno di nanomacchine, di nanobot che si muovono in maniera autonoma, come se fossero dotati di un motore proprio. Da quello che ho appreso fino a oggi, a questi risultati non si sarebbe potuti pervenire se non fra altri due decenni. Il Professor Whu, all'ultimo convegno di Zurigo sulle nanotecnologie, è stato chiaro e ha parlato del 2029 come data possibile per poter vedere qualcosa di simile. E invece...»
In pochi istanti realizzò quanto doveva fare. Innanzitutto chiamò il tecnico di laboratorio che lo aveva avvertito di aver osservato quegli strani corpuscoli nello striscio di sangue mandato dal Pronto Soccorso la notte precedente.
«Mio caro Sergio, ti chiedo un favore», e mentre parlava compilava un assegno con su scritta la somma di diecimila Euro. «Tu non hai mai visto niente su quel vetrino. Dammi la tua parola e scriverò il tuo nome su questo assegno. Hai tutto da guadagnare, soprattutto se non vorrai farmi domande. In più posso farti un'altra promessa... Tu sei laureato in Biologia, e lavori qui come tecnico di laboratorio, ruolo molto inferiore a quello a cui potresti aspirare. Fra tre mesi ci sarà il concorso per il Dottorato di Ricerca e io sono in commissione, credo che potresti partecipare e anche risultare il vincitore!»
Sergio, che non poteva riuscire a capire il senso della sua scoperta, né quanto potesse valere in soldoni, anche se di sicuro era molto più di quanto il suo superiore gli stava offrendo, pensò a sua moglie, ai suoi due pargoli, al mutuo della casa, al miserevole stipendio che percepiva a fine mese, e annuì col capo, accettando l'offerta. Afferrò l'assegno e se ne andò con la coda tra le gambe.
Fin qui era stato facile. Ma adesso doveva agire con la massima circospezione, appropriandosi della cartella clinica della Brandi, che doveva trafugare dallo studio del suo primario, ma soprattutto mettendosi in contatto con il Professor Whu senza lasciare tracce evidenti. Era certo che la sua scoperta sarebbe stata apprezzata e pagata profumatamente dal professore giapponese.
Facendo un rapido calcolo, si rese conto che in quel momento in Giappone erano le sette di sera. Se fosse stato fortunato avrebbe trovato ancora il Professore in clinica. Aveva i suoi numeri, sia quello privato, che quello diretto del suo studio al ventitreesimo piano della clinica Hirohito di Kyoto. Ma come chiamarlo? Inoltrare la chiamata dal cellulare avrebbe significato, oltre la spesa non indifferente, lasciare una traccia indelebile sui tabulati della sua utenza mobile. Dal centralino dell'Ospedale, pensò, partivano ogni giorno centinaia di telefonate dirette ad altre cliniche sparse in tutto il mondo, e sarebbe stato molto difficile individuare la sua telefonata in mezzo alle altre, se a qualcuno fosse venuto in mente di farlo. In fin dei conti, una consulenza telefonica con un luminare di un'altra nazione, rientrava nei costi e nella normale routine della ricerca scientifica. Piuttosto che comporre il numero, dovendo farlo precedere dal suo codice personale, decise di far lavorare il centralinista.
«Devo chiamare l'Ospedale di Kyoto per conto del primario, il Professor Gabrielli.»
«Un interno in particolare?»
«No, chiami il centralino e passi la linea nello studio del Professore.»
Il Professor Gabrielli era in visita in quel momento. Non appena sentì squillare il telefono nella stanza del primario, digitò un codice sulla tastiera del suo apparecchio telefonico, in modo tale da riprendere la telefonata dal suo studio. Un piccolo trucco per mescolare un po' le carte.
Alla voce che rispondeva in un incomprensibile giapponese, il Dottor Giannini oppose una frase in Inglese.
«I'd like to speak with Professor Whu.»
La voce a migliaia di chilometri di distanza si adeguò alla lingua con cui veniva apostrofata, e rispondeva nel medesimo idioma, con accento diverso a quello con cui aveva parlato l'italiano, ma comprensibile alle orecchie di quest'ultimo.
«Dai tabulati delle presenze, vedo che il professore ha passato il badge in entrata questa mattina alle otto e non è ancora uscito dall'ospedale. Provo a passarglielo.»
«L'efficienza giapponese!», pensò il medico italiano. «Se fossi stato io qui alle sette di un sabato sera, nessun centralinista al mondo mi avrebbe inoltrato una chiamata.»
Dopo qualche secondo di attesa con il sottofondo di una nenia giapponese, il Professore rispose.
«Hallo?»
«Professor Whu? Sono il Dottor Marco Giannini, dall'Italia. Ci siamo conosciuti all'ultimo convegno di Zurigo sulle nanotecnologie applicate alla medicina. Ricorda?»
«Oh, come no? Il bamboccione italiano!» Il professore parlava l'idioma italico, ma utilizzava alcune parole pensando che suonassero bene e dessero colore al discorso, senza neanche immaginarne il loro significato offensivo.
Il Dottor Giannini gli espose a grandi linee la sua scoperta.
«Sei il solito cazzone. Vuoi farmi credere che i nanobot presenti nel sangue di quella donna sono capaci di utilizzare l'idrogeno, ricavato dall'acqua presente nei liquidi organici, come propulsore per spostarsi in maniera autonoma da un sito all'altro dell'organismo? Fantascienza pura! E chi ce li avrebbe messi dentro il corpo della tua paziente, E.T. in persona, per caso? Possiamo concludere qui il discorso, mio caro mangiaspaghetti!»
«Aspetti, professore. Ho ottenuto un video al microscopio elettronico e glielo invierò via e-mail. Ma quello che è più sorprendente è che al pronto soccorso alla paziente hanno riscontrato scottature provocate da sigarette. Quando l'ho esaminata io, solo dopo poche ore, la pelle della donna era del tutto integra, non c'era alcuna traccia di scottature o lesioni di sorta.»
Il professore cominciò a cambiare atteggiamento nei suoi confronti.
«Vorrei esaminare la paziente di persona. Prenderò il primo volo per l'Italia e sarò lì domani in serata. Tu devi solo fare in modo che la donna non lasci l'ospedale!»
«Non so se ci riuscirò. Se la Polizia non ha motivi per trattenerla e la Brandi si riprende bene, in giornata sarà dimessa...»
«Falla trattenere, corrompi i poliziotti, so che in Italia non è difficile. Io arrivo prima possibile.»
Il professore chiuse la comunicazione.
«Chissà perché all'estero credono che siamo tutti mafiosi», pensò Marco tra sé e sé. «Però qualche aggancio in Questura lo ho. Tentar non nuoce.»
Chiamò la Questura e si fece passare la sovrintendente Gualandi, una sua vecchia fiamma dei tempi del liceo.
1 FESTA IN VILLA
28 Maggio 2010
Le sette di sera di un tranquillo venerdì di fine maggio. Avevo finito di impartire le ultime raccomandazioni alla baby-sitter, una giovane studentessa universitaria, che all'apparenza tutto sapeva fare tranne che trattare con i bambini, mentre Stefano stava tirando fuori dalla rimessa l'auto di lusso, una Mercedes classe E berlina color grigio metallizzato, tutta tirata a lucido.
Al suono del clacson, mi affrettai a congedare la ragazza e precipitarmi in cortile.
«Questi consessi mondani sono una cosa che odio», disse Stefano, concentrato sulla guida. «Come odio quest'auto, che dovrebbe rappresentare lo status symbol di una certa categoria sociale, costituita da professionisti e piccoli imprenditori, che devono apparire in società più che essere apprezzati per come svolgono il loro mestiere. Anche se appartengo alla stessa categoria, sai bene che non mi ci trovo in mezzo a loro. Stasera ci sarà tutta l'élite della città, immagino,