Una ricca messe di studi quasi ininterrotta, che parte dall’erudizione storica tardo ottocentesca e dalla scuola economico-giuridica a cavallo tra i due secolo,17 sino a giungere a lavori recenti, ha messo bene in luce la diffusione e il ruolo della manifattura laniera nelle città italiane. Una prima sintesi c’è stata offerta, nel 1990, dalla rassegna di Bruno Dini che presenta un quadro complessivo, ricco e articolato, della geografia delle manifatture tessili basso medievali.18 Gli studi non si sono affatto interrotti negli ultimi due-tre decenni, con lavori di carattere generale19 o su singole città.20 L’attenzione si è rivolta anche a centri piccoli e medi, talvolta veri e propri distretti, dove non di rado parte della manodopera –quella meno specializzata– alternava il lavoro nella manifattura con quello dei campi.21 Il sistema della fabbrica disseminata (Verlagsystem) risulta essere in funzione anche in numerosi piccoli centri.22
L’arte della lana, fiore all’occhiello –si potrebbe dire parafrasando il testo perugino– di tante città italiane, aveva assunto un’importanza del tutto particolare per una serie di ragioni, che si possono così riassumere: produceva ricchezza, ovvero, usando un termine dell’economia contemporanea, contribuiva in misura determinante al prodotto interno lordo; alimentava gli scambi commerciali ai diversi livelli (locale, regionale, internazionale) sia per i panni finiti che per le materie di base, incrementando in tal modo le entrate dell’erario grazie alle gabelle che gravavano sulle merci in movimento; dava da vivere a una parte considerevole della popolazione cittadina e a persone che vivevano nelle campagne circostanti (per la filatura e in certe zone anche per la tessitura); contribuiva a rendere le città ben popolate, in un periodo in cui il numero degli abitanti era considerato elemento di forza e di prestigio: «nichil est quod urbes opulentiores et celebriores efficiat quam civium et habitantium moltitudo».23 Si aggiunga infine che si trattava di una produzione destinata a soddisfare i bisogni primari della popolazione nella sua interezza: come recita uno statuto padovano del ‘300, i tessuti erano considerati «res utiles ad sustentaciones vite», al pari quasi dei generi alimentari (victualia).24
Tutte queste ragioni facevano sì che l’interesse per le sorti della manifattura laniera non rimanesse circoscritto all’interno della corporazione ma chiamasse in causa il governo stesso della città, come testimoniano gli statuti cittadini e le delibere consiliari, di cui abbiamo falto menzione.
Nella celebre descrizione di Firenze al 1338 Giovanni Villani parla di 200 botteghe della lana e di una produzione di 70-80 mila panni, il cui valore superava i 1.200.000 fiorini d’oro.25 Può darsi che il cronista sopravvaluti il numero dei panni confezionati,26 resta il fatto che a Firenze –uno dei maggiori centri dell’Occidente europeo– nessuna altra attività produceva manufatti il cui valore si avvicinasse minimamente a quello dei panni che uscivano dalle botteghe dei lanaioli. Per Siena abbiamo ricordato sopra la considerazione espressa nella massima assemblea cittadina secondo cui la vendita dei panni di lana faceva affluire da ogni parte denaro in città.27 A Pisa una serie di provvedimenti pubblici a favore dell’Arte della lana, adottati prima e dopo la metà del Trecento, avevano come obiettivo dichiarato quello di accrescere la ricchezza della città.28 Vanno nella stessa direzione le testimonianze ricordate sopra in relazione a Verona e Vicenza.29 Ancora, alcune delle maggiori famiglie ascolane della primissima età moderna avevano costruito le loro fortune con la produzione e il commercio dei panni lana.30
Importante quanto l’attività manifatturiera in sé era il commercio delle materie prime e dei panni confezionati. Le une e gli altri erano probabilmente tra le merci che più circolavano sulle medie e lunghe distanze.31 È noto che la più importante arte fiorentina, quella di Calimala, raggruppava i grandi mercanti internazionali impegnati nella rifinitura e nel commercio dei panni pregiati importati dalle Fiandre.32 Quanto alla materia prima, nei centri manifatturieri italiani arrivava –come si è detto– lana dall’Inghilterra, dalla penisola iberica (detta di San Matteo), dai paesi del Maghreb (lana d’Algarve); ma intensa era pure la circolazione delle lane nostrali, di minor valore, prodotte soprattutto nelle aree montane, alpine e appenniniche.33 A tale commercio si aggiungeva quello delle sostanze tintorie, a cominciare dal guado, dei vari mordenti (allume, erica, ecc.), dell’olio per ungere le fibre da filare, del sapone per purgare il tessuto.34 Per molti dei maggiori centri lanieri italiani si potrebbe costruire una carta tematica con le provenienze delle diverse materie prime e altrettanto per le principali destinazioni dei panni prodotti.
Non erano tanto i lanaioli a guadagnare dalla circolazione di merci e di denaro che ruotava intorno all’arte della lana, quanto i mercanti che in genere controllavano tutta l’attività manifatturiera, dal rifornimento della materia prima alla vendita dei panni. La mobilità sociale in ascesa, nelle città come nei centri minore, ebbe come protagonisti soprattutto quanti svolgevano attività di scambio e di intermediazione, assai più raramente chi era impegnato solo nel processo produttivo.35
Dall’importanza economica della manifattura laniera derivava direttamente il peso politico raggiunto in molte città dall’Arte della lana,36 a cui si aggiungeva il prestigio sociale assicurato da iniziative che davano lustro all’intera cittadinanza.37
Se le nostre conoscenze sulla produzione e sul commercio dei panni lana si sono arricchite nel tempo, non approfondite a sufficienza risultano essere la funzione sociale svolta dall’arte della lana e la consapevolezza che ne avevano i governi cittadini, e, da qui, le misure che venivano adottate di volta in volta.
Partiamo ancora una volta dalle fonti, in particolare dalle fonti narrative e da quelle pubbliche che fanno riferimento all’importanza della manifattura laniera, in quanto attività economica che più di ogni altra creava occupazione. Giovanni Villani nella già ricordata descrizione di Firenze al 1338 parla di 30 mila persone che vivevano direttamente o indirettamente dell’arte della lana; ovvero un terzo circa della popolazione cittadina.38 La stima, sicuramente di massima, proposta dal cronista, non è in contrasto con l’indicazione del valore dei panni prodotti