Si sarebbe stabilito che l’ecchimosi era stata causata da un pesante vaso domestico calato sulla testa, sul quale l’anatomopatologo avrebbe trovato tracce del cuoio capelluto della vittima. Il medico avrebbe stabilito inoltre che, sicuramente, la morte era stata dovuta a un punteruolo passato per l’orecchio fin a bucare l’encefalo.
La figlia della morta, che a stento aveva fatto in tempo a lasciarsi cadere sopra una sedia, vi era venuta meno. Ripresa conoscenza, verso le 22 e 10 com’ella aveva appurato all’orologio da polso, benché ancora sotto shock era riuscita a telefonare al 113.
Verso le 23 avevo avvertito per cellulare Vittorio del nuovo omicidio, esaudendo la sua richiesta d'informarlo di possibili sviluppi dei quali fosse giunta notizia al giornale. Del nuovo delitto m’aveva detto Carla Garibaldi poco prima, dalla sua postazione-computer, quando le ero passato accanto diretto alla mia scrivania. Ne aveva appena avuto notizia telefonica da un collaboratore che, di regola, alla sera e nelle prime ore della notte stazionava nell’atrio della Questura assieme a colleghi dell’altro quotidiano cittadino e delle televisioni, per ricevere notizie di nera. Di seguito il vice di Carla era accorso cogli altri sul luogo del delitto, per riferire novità alla sua principale.
Vittorio aveva il numero del cellulare di Evaristo Sordi, da lui aveva saputo che il funzionario si trovava sul luogo del delitto e che la salma non era stata ancora rimossa, in attesa dell’imminente arrivo e dell’autorizzazione del pubblico ministero Trentinotti al trasferimento in obitorio per la necroscopia. L’amico aveva ottenuto dal Sordi d’essere ammesso nell’alloggio della morta confondendosi coi giornalisti.
Non aveva mai avuto patente e viaggiava per la città in tram, parsimoniosamente; ma data l’ora e l’urgenza, quella volta aveva preso un taxi. Era stata tuttavia una perdita di tempo e denaro, infatti era giunto sul pianerottolo innanzi all’alloggio della defunta quand’ormai s’erano mossi tanto i giornalisti, compreso il vice di Carla, che il medico legale, il giudice e il commissario; questi aveva preso con sé, sull’auto di servizio, la figlia della morta, per raccoglierne ufficialmente e verbalizzare in Questura la testimonianza. Il cadavere era di già in viaggio verso l’obitorio. Rimanevano solo due agenti che stavano mettendo i sigilli alla porta e la vice sovrintendente che li comandava e che, conoscendo il D’Aiazzo, l’aveva salutato con cordialità; forse non l’avrebbe potuto, ma gli aveva anche offerto un passaggio sulla propria pantera fin alla Questura, ch’egli s’era ben guardato dal rifiutare, considerando la prossimità della stessa alla sua abitazione e l’ora ormai tarda.
Il giorno dopo Vittorio, durante la sua solita passeggiata sotto i portici di via Cernaia, corso Vinzaglio, corso Vittorio Emanuele e viceversa, sul ritorno aveva avuto idea di fare una sosta in Questura. Aveva chiesto del commissario Sordi, sperando che fosse in sede.
C’era e l’aveva ricevuto.
Senza preamboli, Evaristo gli aveva detto: “Ieri sera avevo dovuto andar via prima del tuo arrivo… eri venuto, no?”
“Sissignore”.
“Mi spiace, Vittorio, ma prima che tu giungessi il giudice ci aveva dato l’ordine di sgombrare e sigillare. Non avevo potuto aspettarti, dovendo andar via cogli altri e portarmi al seguito la testimone del ritrovamento, la figlia della morta, per mettere subito nero su bianco la sua deposizione”.
“Nessun problema. Se vuoi, dimmi qualcosa di ’sta figlia”.
“Nessun sospetto su di lei, anzi pare proprio, dalle testimonianze di vicini di casa della madre e, inoltre, di vicini della figlia interrogati poco fa dai nostri di Asti, dov’ella vive con marito e due bambini, che le due andassero d’amore e d’accordo; anzi, figlia e genero invitavano sovente la mamma a casa loro, venendo lei o lui a prenderla in auto qui a Torino, per non farla andare su e giù in treno, e poi riportandola a fine giornata”.
“Capito. Deve aver sofferto molto quella povera signora”.
“Sì, era affranta. A parte questo, se ieri notte non ti ho potuto attendere, in paga ti dico adesso tutto quanto so. Anzitutto che, diversamente dal caso Capuò Tron, l’omicida è entrato dalla porta e non da una finestra, dato che, come sai, l’alloggio è al terzo piano. Inoltre, che stavolta non è stato sottratto nulla, almeno secondo la figlia della morta: forse l’assassino è stato disturbato da qualcosa prima di frugare e rubare e si è eclissato in fretta tirandosi la porta dietro, che è rimasta chiusa col solo scatto; ma la notizia forse più importante riguarda il profilo della vittima: ho controllato nei nostri archivi se la Peritti Verdani fosse incasellata e ho trovato registrazioni su di lei… nell’ufficio DIGOS”.
“Ah, però! Hm… mentre la prima vittima…?”
“No, niente, la Capuò Tron era un angioletto, povera donna, mai avuto a che fare con noi a nessun titolo. Invece la Peritti era di ben diversa pasta, almeno per il passato, ché poi doveva essersi data una calmata. Nei primi anni ’70, non ancora coniugata Verdani, era stata operaia alla FIAT che l’aveva minacciata di licenziamento più volte a causa di gravi intemperanze sindacali verso colleghi non comunisti e contro il caporeparto, anzi, più che di intemperanze, parliamo pure di eccessi filo rivoluzionari: quella Peritti era conosciuta nell’ambiente marx-leninista col soprannome di Pasionaria, come la vecchia Dolores Ibarruri della guerra civile spagnola, precisamente la Pasionaria di Mirafiori. Gli avvertimenti da parte della proprietà erano stati propedeutici al licenziamento che però, per il cosiddetto Statuto dei Lavoratori1 , doveva avere giusta causa, com’era definita, cioè in caso di contestazione da parte del licenziato doveva esserci un motivo di licenziamento riconosciuto valido da un giudice del lavoro”.
“Per tempi ordinari sarebbe stata, tutto sommato, una buona legge, ma non per quegli anni rivoluzionari”.
“Sì, Vittorio, infatti in quel tempo, come sai, solo per casi veramente estremi i giudici del lavoro riconoscevano la giusta causa, e la Peritti era pressoché intoccabile. Solo alla metà degli anni ’70 la proprietà era riuscita finalmente a sbatterla fuori, dopo una sentenza favorevole, in grazia d’un fatto più grave dei precedenti: durante una delle tante violente proteste davanti ai cancelli dello stabilimento, lei aveva colpito fisicamente il proprio caporeparto, ch’ella stessa e altri facinorosi avevano obbligato con la forza a partecipare: tutt’altro che nuova a prodezze del genere, la Pasionaria gli aveva mollato due colpi con l’asta della bandiera rossa che stringeva in pugno, uno sulla spalla e l’altro, assai più grave, sulla testa, e l’aveva mandato all’ospedale svenuto e col cuoio capelluto lacerato; purtroppo per lei, quella volta aveva compiuto la bella impresa davanti a un nostro plotone in servizio d’ordine, che l’aveva fermata, non senza difficoltà peraltro, come risulta dal verbale in archivio, e l’aveva portata qui in Questura dove s’erano prese le sue generalità ed era stata denunciata per resistenza. Era stata poi querelata dal caporeparto e, fra una cosa e l’altra, s’era presa una condanna, sia pure con la condizionale, e inoltre la sua liquidazione, su istanza del legale del ferito, era stata posta sotto sequestro ed era servita a risarcire la vittima; ma soprattutto, con gran soddisfazione, la proprietà aveva potuto sbattere fuori quella novella Ibarruri. I nostri della DIGOS avevano continuato a tenerla d’occhio ovviamente, erano gli anni del terrorismo e la Peritti aveva proprio il profilo giusto per essere sospettata di simpatizzare per Brigate Rosse e compagnia. Risulta pure dall’archivio che, dopo un breve periodo di disoccupazione, era stata assunta come magazziniera in un’azienda artigianale produttrice di porte per docce