Giorni dopo un nuovo delitto l’aveva discolpata del tutto, prospettando la diversa pista dell’assassino seriale.
Benché pensionato fin dal 1984, il mio caro e unico amico Vittorio D'Aiazzo, questore emerito, s’era voluto occupare del caso, di concerto con la Polizia in veste d'informale consulente, così come già aveva fatto, dopo il proprio pensionamento, per alcuni casi particolarmente interessanti. Il 30 aprile del 2001 Vittorio avrebbe compiuto ottantadue anni, ma l'età non gli aveva fatto perdere la verve. Non si trattava soltanto, per lui, d’un intrigante passatempo onde sentirsi ancor attivo, ma d’un “servizio di bene agli altri” come mi aveva detto una volta, “servizio che voglio continuare a svolgere per contribuire a rendere un po’ meno ingiusta quest’amorale società e, magari, un po’ meno infelice il mio prossimo”: era una delle sue maniere per obbedire a quel precetto d’amore che aveva cercato d’attuare, immagino, in tutta la sua vita e, di sicuro, da quando l’avevo conosciuto negli ormai lontani anni ’50 del sanguinario e insanguinato XX secolo che stava ormai per chiudersi senza promettere alcun miglioramento per il millennio veniente.
Ammiravo la fede esistenziale del mio amico, che ben poco aveva a che fare con la religione, se con tale parola s’intenda convenzionalmente la sudditanza e il servizio, colmo d’obblighi liturgici, a un Dio potentissimo e pretenzioso, immune dalle sofferenze umane: era una fede che s’esprimeva concretamente nel fare il bene agli altri, sull’esempio del martoriato suo Maestro evangelico che, secondo Vittorio, aveva espresso nel mondo l’amoroso sentire dello stesso Dio. “Ovviamente”, m’aveva detto una volta, “quando una persona percorre, per quanto può, la via dell’amore verso il prossimo, è impossibile che questa non continui anche dopo la morte, nell’Eterno Amore”. Purtroppo, diversamente dall’amico io non ero e non sono credente; dico purtroppo perché, non essendo più giovane, penso spesso, più che nel passato, alla morte con la sua putrefazione e, se solo il niente c’è dopo l’ultimo respiro, all’inutilità tragica della vita. Tuttavia era stato proprio tal pessimistico sentire a condurmi, sin da giovanetto, a quello stesso desiderio di giustizia che animava il mio amico, anche se per me si trattava d’una giustizia che poteva essere solo terrena; e convinto com’ero che nella tragedia cosmica in cui avevo parte, fosse almeno indispensabile la piena solidarietà fra gli umani secondo l’etica, per me intramontabile, che ha in onore ogni persona, provavo sdegno altissimo verso coloro che accorciavano coscienti il bene della vita altrui, di già tanto breve, e verso i violenti in genere che tormentavano i pochi anni concessi sulla terra agli umani; e mi trovavo del tutto d’accordo con Vittorio quando mi diceva che, sin dagli anni ’60 del XX secolo, il vivere civile s’era vie più abbrutito nell’affievolimento e infine nella perdita, in molti, dei tradizionali ideali filosofico-sociali o religiosi, onde la vita di quelle stesse persone s’era resa puro esercizio del proprio egoismo, secondo quella che il mio amico chiamava la regola del faccio quanto mi pare se mi sembra conveniente.
Vittorio aveva fatto rapida carriera fin ai primi anni '70, promosso vice questore in età ancor giovane, poi più nulla, ingiustamente; solo nel giorno del collocamento a riposo era asceso automaticamente, come previsto dai regolamenti, al superiore livello, e alla pensione, di questore.
Il mio amico non aveva né famiglia né prossimi parenti: vedovo lui da gran tempo, senza figli, e scapolo io, parimenti solitario, ci sentivamo come fratelli.
Io sono Ranieri Velli detto Ran, giornalista e scrittore e, negli anni ’50 e ’60 dello scorso secolo, collaboratore, col grado di vice brigadiere, dell’allora commissario Vittorio D’Aiazzo nel Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza.
Ero il più giovane dei due, veleggiavo soltanto, si fa per dire, verso i sessantotto, compleanno il successivo 1° d’agosto 2001. Come Vittorio già godevo di pensione, pur non avendo smesso l’attività d’opinionista sulla stampa quotidiana: nel più lontano passato, quando ancora non c’erano le facoltà di Scienze delle Comunicazioni e pure un non laureato, dopo il debito praticantato, poteva accedere alla carriera di giornalista, avevo lavorato alla gloriosa Gazzetta del Popolo, quotidiano torinese che, fra sospensioni e riprese nel suo ultimo decennio di vita, aveva cessato del tutto le pubblicazioni il 31 dicembre 1983; quindi ero passato ad altro foglio, La Gazzetta Libera, fondato l’anno successivo, niente a che fare con l’antecedente quotidiano omofono, anche se creato anch’esso come contraltare torinese dell’immarcescibile La Stampa che, in sostanza, significava FIAT: grazie alle sovvenzioni d’un gruppo economico che ne aveva interesse, la novella Gazzetta, sebbene non fosse mai arrivata alla buona tiratura della precedente, era giunta viva al XXI secolo.
Se Vittorio era il mio unico amico, egli godeva invece di più di un'amicizia, pur se tutte meno profonde. Anche Evaristo Sordi poteva dirsi amico di Vittorio pur non avendolo frequentato nella vita privata. Anni prima era stato suo aiutante nella Sezione Omicidi della Squadra Mobile dopo che io, suo predecessore, e scrittore part time, avevo presentato le dimissioni per dedicarmi interamente alla scrittura. Evaristo era giunto al massimo della carriera per un non laureato, alla funzione d'ispettore superiore sUPS vale a dire di sostituto Ufficiale di Pubblica Sicurezza, detto comunemente “sostituto commissario” ricoprendone le funzioni. Di non molto più giovane di me, non era lontano dalla pensione. L'uomo portava importanti baffi da tempo grigi e aveva ancora, nonostante gli anni, una gran quantità di capelli, parimenti sale e pepe. Era figura prospera, tanto quanto lo era quella del mio amico Vittorio il quale tuttavia, a differenza d’Evaristo, non era uomo d’elevata statura. Ero io il più alto dei tre e di molto, quasi un metro e novanta, e inoltre magrissimo da sempre anche se, disgraziatamente, negli ultimi anni m’ero un poco ingobbito, a causa della mia pessima abitudine, comune alle persone torreggianti, di chinarmi verso i molti interlocutori di statura minore, cominciando dallo stesso Vittorio.
Vittorio aveva saputo del primo crimine da un telegiornale della sera e, la mattina seguente, ne aveva letto con calma sul nostro quotidiano, in un articolo della capo redattrice di nera Carla Garibaldi, mia collega nubile sulla quarantina, una donna sul metro e settantacinque che, a causa d’eccessivo body building, “svolto quotidianamente” come m’aveva detto, aveva braccia e polpacci, e probabilmente cosce, un po’ troppo muscolosi per i miei gusti d’uomo della vecchia guardia. Era inoltre obiettivamente imbruttita da prognatismo mandibolare e da un naso troppo piccolo per la conformazione del suo viso notevolmente largo. Era peraltro persona di grande cultura e dal carattere franco e schivo, con la quale mi trovavo bene, a differenza che con certi spocchiosi del nostro giornale.
C’era stato mio tramite, come già per casi passati, uno scambio di notizie fra Vittorio e Carla e viceversa, con vantaggio di lei, tutto sommato, perché l’amico godeva, di solito, d’informazioni di prima mano in quanto sovente visitava in Questura il Sordi. Questi aveva già avuto, in casi precedenti, suggerimenti decisivi dal pensionato questore, per cui non era solo per deferente simpatia che soleva accoglierlo nel suo ufficio e, a volte, sui luoghi stessi dei delitti e ascoltarne i pareri. Anche nel caso del Mostro dell'Orecchio, ben volentieri, s’era tenuto Vittorio vicino.
L'amico, a volte, passava pure a trovare un altro suo ex dipendente, il vice questore Giandomenico Pumpo il quale, dopo un periodo da commissario capo alla direzione d’uno speciale reparto che s’occupava di gruppi magici, esoterici, pseudo-religiosi e satanici, la SAS, Squadra Anti Sette, sedeva allo stesso posto ch’era stato del D’Aiazzo. Pur se meno suo amico del Sordi, anche il Pumpo si lasciava strappare talora dal vecchio poliziotto qualche notizia utile alle proprie parallele indagini.
Il secondo delitto era occorso cinque giorni dopo l’uccisione della Capuò Tron,