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Giugno 1936
Un giorno la mamma smise di canticchiare. Camminava avanti e indietro con un’andatura stanca, poi si fermava, nascondendo il volto fra le mani. Di tanto in tanto si alzava e andava a guardare fuori dalla finestra. Quando le domandai: “Mamma, non stai bene?”, scosse la testa e si voltò. Mi sedetti accanto a lei e mi accarezzò i capelli.
Il papà si era recato al lavoro alle tredici e trenta per il turno pomeridiano. lo aspettai inutilmente che mia madre giocasse con me come di solito. Arrivò poi l’ora di andare a letto. La mamma mi accompagnò in cameretta e mi diede l’acqua santa per fare il segno della croce. Recitò una preghiera e, prima di rimboccarmi le coperte, mi baciò teneramente.
Di solito la mamma chiudeva le persiane, ma quella sera si sedette sul bordo del mio letto e rimase in silenzio. Pian piano calarono le tenebre e la luce della luna le illuminò i capelli neri e mossi. La sua carnagione di porcellana aveva assunto un colorito ancor più pallido. Non riuscivo a vedere i suoi occhi blu scuro, ma li sentivo su di me. Lentamente il suo profilo si dissolse. Mi addormentai alle otto, l’orario in cui abitualmente andavo a letto.
Spesso mi svegliavo alle dieci e un quarto di sera, disturbata dal rumore delle biciclette degli operai che tornavano a casa dalla fabbrica. Sentivo il papà mentre sistemava la sua nel garage e saliva gli scalini di legno che scricchiolavano sotto i suoi piedi. Poi faceva girare la chiave nella serratura e apriva la porta il più silenziosamente possibile. La mia cagnolina Zita, che dormiva nel bagno vicino all’entrata, lo accoglieva festosamente e lo seguiva in cucina. Lì il papà si toglieva le scarpe, infilava le pantofole e appendeva la giacca. A quel punto tiravo su la coperta del letto fino al naso e serravo forte gli occhi. Ed ecco il magico momento in cui il papà entrava nella mia stanza, si chinava su di me, sfiorava il mio viso col suo respiro caldo e posava sulla mia fronte un bacio leggero come una farfalla. Le sue mani accarezzavano i miei capelli corti e, mentre fingevo di dormire assaporando intensamente quel soave istante, sentivo su di me il suo sguardo pieno di amore.
Quella notte, invece, mi svegliai improvvisamente con l’angosciante sensazione di essere sola. Chiamai disperatamente e la mamma accorse subito in camicia da notte e con i capelli ondulati raccolti in una retina.
“Dov’è il papà? Non è venuto a darmi il bacio della buona notte!”
“Sst, sono le tre passate. Il papà deve dormire e anche tu!” Si sedette vicino a me accarezzandomi i capelli intrisi di sudore per il panico.
Il mattino seguente il papà non era seduto con noi a tavola per la colazione e non c’era neppure la sua tazza.
“Il papà starà via per qualche giorno”, mi disse la mamma con voce tremula, trattenendo a fatica le lacrime.
Il mio papà ci aveva lasciate! Se n’era andato! Ecco perché negli ultimi tempi mi era sembrato così triste, teso e preoccupato. Ricordai una recente conversazione tra lui e la mamma. “È stato un errore! Non sarebbe dovuto accadere!”, le aveva sussurrato, pensando che non li sentissi. “Adolphe, non ti preoccupare! Può capitare a chiunque di sbagliare!” Come aveva osato la mamma accusare il papà di avere commesso degli errori? Lui non sbagliava mai. Ne ero sicura! Doveva essersene andato via mortificato da quell’offesa.
Ma dove poteva essersi diretto? Sicuramente a Kruth, il villaggio situato in fondo alla valle. Era uno dei miei luoghi preferiti. Avrei voluto fuggire con lui, lontano da quella mamma così meschina.
A Kruth viveva Paul Arnold, zio e patrigno del papà. Io lo chiamavo “nonno-padrino”. Aveva l’abitudine di stare in piedi con la mano destra appoggiata allo stipite della porta, proprio sotto la croce scolpita nell’architrave di pietra, dove erano state incise delle cifre. Quando sorrideva, i suoi occhi sparivano fra le rughe del viso. Era così vecchio e rugoso che assomigliava a un pruno! Portava i calzoni arrotolati più volte attorno alla cintura. Avrei tanto voluto essere da lui!
Perché il papà non mi aveva portato con sé?
Invece me ne stavo lì imbronciata nella mia cameretta e poco dopo iniziai a piangere.
“Adolphe, Adolphe, sei riuscito a tornare a casa!” La voce eccitata di mia madre mi fece sussultare. Stavo sognando? Balzai in piedi e mi precipitai fra le braccia di mio padre; intanto la mamma corse in cucina a preparargli un pasto caldo.
Il papà ci spiegò l’accaduto: “Gli operai della fabbrica hanno scioperato fermando le presse senza neppure togliere la stoffa dalle stampanti! Tutti sono corsi fuori precipitosamente, ma chi indossava le camicie bianche è stato costretto a rientrare. Alcuni sono stati perfino picchiati! Nessuno poteva più entrare o uscire1 ”.
1 In seguito alla vittoria del Fronte Popolare nel giugno 1936, scoppiarono scioperi bianchi in diverse zone della Francia.
“E tu come hai fatto a scappare?”
“Sono andato a dormire con gli ingegneri nel magazzino dei tessuti. Da lì sentivamo gli slogan e le minacce degli operai. Vi assicuro, era veramente spaventoso! Ma sapevo che alle due del pomeriggio alcuni colleghi stampatori, coloristi e incisori sarebbero arrivati all’entrata. Quindi sono sceso. Appena mi hanno visto, hanno aperto la porta gridando: ‘È dalla nostra parte, anche se porta una camicia bianca! Lasciatelo uscire!’ Ho avuto bisogno della loro protezione a causa degli operai che non mi conoscevano”.
Mio padre aveva avuto bisogno di protezione? Aveva avuto paura? E aveva dormito in un magazzino pieno di bidoni di inchiostro senza fare una sola macchia sui suoi abiti? Non ci capivo niente!
Mangiava e raccontava con parole che non mi erano familiari. Non l’avevo mai visto così agitato. La sua faccia era tutta rossa e la voce tesa. Temevo che cadesse morto stecchito, proprio com’era successo tempo addietro a suo padre.
Continuò il suo discorso con termini inconsueti: proletariato, comunisti, socialismo, rivendicazioni, salari, diritti umani, classe dirigente, fiducia.
A un certo punto non ne potei più di tutto quel parlare febbrile. Uscii sul balcone. La luce della cucina rischiarava le petunie blu e bianche e i gerani rossi, ma la notte aveva zittito il canto degli uccelli e il ronzio delle api.
“Guarda, papà! Il cielo ha di nuovo indossato il suo mantello di velluto nero trapunto di diamanti”.
Allora lui smise finalmente di parlare e mi raggiunse. Mi sollevò fra le sue braccia, mentre la mamma sparecchiava la tavola.
“Simone, quei diamanti lì sono stelle. Sono molto, molto grandi e anche tanto lontane”. Ne indicò alcune sopra la nostra testa e proseguì: “Le vedi quelle quattro disposte in quadrato con le altre tre che formano una coda?”
“Oh, sì! È una pentola”.
“Si chiamano Orsa Maggiore”.
“Non riesco a vedere l’orsa!”
“Non riesci, perché non puoi vedere tutte le stelle che la formano”.
“Oh! Adesso ho capito, l’orsa è nella pentola!”
Da quella sera continuai a scrutare il cielo stellato per cercare di trovare l’Orsa Maggiore, ma la pentola rimaneva disperatamente vuota.
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Estate 1936
La mamma e io avevamo trascorso le vacanze estive dai nonni. Ora la stagione calda giungeva gradualmente al termine, portandosi via le belle giornate soleggiate e la mamma aveva quasi terminato i suoi lavori di cucito. Zio Germain era estasiato dalle sue camicie nuove, il nonno era soddisfatto dei calzoni di velluto e la nonna andava fiera del suo cappello letteralmente trasformato: ornato con i fiori e quei nastri