“Bene,” disse, ma il tono della voce diceva qualcos’altro. “Tutto okay. Senti, mi serve il tuo aiuto.”
“Susan…” cominciò lui.
“È una cosa di una giornata, ma è molto importante. Mi serve qualcuno che possa chiuderla rapidamente, e con assoluta discrezione.”
“Di cosa si tratta?”
“Non posso parlarne al telefono,” disse. “Puoi venire?”
Gli crollarono le spalle. Accidenti.
“Va bene.”
“Tra quanto puoi arrivare?”
Guardò l’orologio. Gunner sarebbe stato a casa in un’ora e mezza. Se voleva trascorrere del tempo con suo figlio, la riunione avrebbe dovuto aspettare. Se andava alla riunione…
Sospirò.
“Arrivo il prima possibile.”
“Bene. Mi assicurerò che ti portino dritto da me.”
Luke riappese. Guardò Becca. C’era qualcosa di crudele e di derisorio nei suoi occhi. C’era un demone lì, che danzava su un lago di fuoco.
“Dove stai andando, Luke?”
“Lo sai dove sto andando.”
“Oh, non rimarrai qui per passare un po’ di tempo con tuo figlio? Non farai il buon padre? Che sorpresa. Cavolo, avrei pensato…”
“Becca, smettila. Okay? Mi dispiace che tu…”
“Perderai la custodia di Gunner, Luke. Parti di continuo in missione, no? Be’, indovina un po’. Ho intenzione di fare di te la mia missione. Quel ragazzino non lo vedrai neanche. Ci lavorerò col mio ultimo respiro. Lo cresceranno i miei, e tu non avrai accesso a lui. Lo sai perché?”
Luke puntò alla porta.
“Addio, Becca. Buona giornata.”
“Te lo dico io il perché, Luke. Perché i miei genitori sono ricchi! Adorano Gunner. E tu a loro non piaci. Pensi di poter battere i miei in una battaglia legale, Luke? Io credo di no.”
Era per metà fuori, ma si fermò e si voltò.
“È questo che vuoi fare del tempo che ti rimane?” disse. “È questo che vuoi essere?”
Lei lo fissò.
“Sì.”
Luke scosse la testa.
Non la riconosceva più, se mai l’aveva conosciuta.
E con ciò, se ne andò.
CAPITOLO QUATTRO
23:50 ora dell’Europa orientale (17:50 ora legale orientale)
Alessandropoli, Grecia
Si trovavano a trenta miglia dal confine turco. L’uomo controllò l’orologio. Quasi mezzanotte.
Presto, ancora presto.
Si chiamava Brown. Era un nome che non era un nome, per qualcuno che era scomparso molto tempo prima. Brown era un fantasma. Aveva una grossa cicatrice lungo la guancia sinistra – un proiettile che l’aveva appena mancato. Portava un taglio di capelli a spazzola. Era grande e forte, e aveva i lineamenti affilati di chi aveva trascorso tutta la vita adulta nelle operazioni speciali.
Un tempo Brown era conosciuto con un altro nome – col suo vero nome. Col passare del tempo, il nome era cambiato. A un certo punto era passato per così tanti nomi da non riuscire a ricordarseli tutti. L’ultimo era il suo preferito: Brown. Nessun nome di battesimo, nessun cognome. Solo Brown. Brown bastava e avanzava. Era un nome evocativo. Gli ricordava le cose morte. Le foglie morte nel tardo autunno. Gli alberi morti dopo un test nucleare. I marroni occhi morti spalancati e fissi delle molte, molte persone che aveva ucciso.
Tecnicamente, Brown era in fuga. Era finito sul lato sbagliato della storia circa sei mesi prima, su un lavoro che non gli era neanche stato spiegato. Aveva dovuto lasciare il suo paese di origine in fretta e sparire. Ma dopo un periodo di insicurezza, era tornato in piedi di nuovo. E, come sempre, c’era moltissimo lavoro da fare, soprattutto per un uomo con la capacità di ripresa che aveva lui.
Adesso, poco prima della mezzanotte, se ne stava fuori da un magazzino in una sezione malmessa del distretto portuale di quella città marittima. Il magazzino era circondato da un’alta recinzione sormontata da filo spinato, ma il cancello era aperto. Una fredda nebbia giungeva dal mar Mediterraneo.
Con lui c’erano due uomini, entrambi con addosso giacche in pelle, ed entrambi con mitra Uzi assicurati alle spalle, e scorte extra. Quelli sarebbero stati quasi identici, solo che uno di loro si era rasato completamente la testa.
Fuori sulla strada, si avvicinavano dei fanali.
“Occhi aperti,” disse Brown. “Adesso arrivano i guerrieri santi.”
Un furgoncino risaliva il viale deserto. C’era un’immagine gigante di arance lungo la fiancata, una di queste affettata a metà a esibire la brillante polpa rosso arancio del frutto. Sulla fiancata del furgone c’erano delle parole in greco, probabilmente il nome di un’azienda, ma Brown il greco non lo sapeva leggere.
Il furgone raggiunse il cancello e proseguì dritto nel giardino. Uno degli uomini di Brown si avvicinò e fece scivolare il cancello sui binari, poi lo chiuse a chiave con un pesante lucchetto.
Non appena il furgone si fu fermato, due uomini smontarono dalla cabina. Si aprì il portellone posteriore, e ne uscirono altri tre. Quegli uomini avevano la pelle scura, probabilmente erano arabi, ma erano rasati. L’uniforme che indossavano consisteva in blue jeans, leggere giacche a vento e sneakers.
Un uomo portava un’ampia borsa di tela, come fosse una borsa per l’attrezzatura da hockey, su ogni spalla. Il peso delle borse a tracolla gli abbassava le spalle. Tre degli uomini avevano degli Uzi.
Noi abbiamo gli Uzi, loro hanno gli Uzi. Uzi party.
Il quarto uomo, il conducente del furgone, aveva le mani libere. Si avvicinò a Brown. Aveva gli occhi azzurri, e la pelle molto scura. Aveva i capelli nero corvino. La combinazione degli occhi azzurri e della pelle scura faceva uno strano effetto in viso, come se non fosse stato del tutto reale.
I due si strinsero la mano.
“Jamal,” disse Brown. “Pensavo di averti detto di venire solo con tre uomini.”
Jamal fece spallucce. “Me ne serviva uno per portare i soldi. E io non conto, no? Quindi in effetti ne ho portati tre. Tre tiratori.”
Brown scosse la testa e sorrise. Aveva a malapena importanza quante persone avesse portato Jamal. I due uomini con Brown potevano uccidere una camionata di tiratori.
“Okay, andiamo,” disse Brown. “I camion sono dentro.”
Uno degli uomini di Brown – si faceva chiamare signor Jones – prese dalla tasca un apriporta automatico, e la saracinesca del magazzino lentamente sferragliò verso l’alto. Gli otto entrarono nello spazio cavernoso. Il magazzino era per lo più vuoto, tranne che per delle pesanti incerate verdi gettate su due veicoli giganteschi. Brown andò dal più vicino e scostò l’incerata per metà.
“Voilà!” disse. Quella che aveva scoperto era la metà anteriore di un ampio articolato, dipinto di verde, marrone e colori marrone chiaro mimetici. Jones scostò l’incerata vicino alla parte posteriore del mezzo, svelando una piatta piattaforma missilistica di lancio a quattro cilindri. Le due parti del camion erano separate e indipendenti l’una dall’altra, ma erano attaccate nel mezzo dall’idraulica.
I camion venivano chiamati trasportatori elevatori lanciatori, o TEL, relitti della Guerra fredda, stazioni di attacco mobili che la NATO aveva usato per tenere sotto bersaglio la vecchia Unione Sovietica. I lanciatori