A ridosso della banchina stavano i carabinieri genovesi che prendevano flato, per poi riprendere l'assalto.
Caduti dall'alto i due si trovarono vicini a Froscianti, il carissimo, fidato amico del generale Garibaldi, che appena veduto Elia, gli domandava cartucce avendo egli finito le sue. Nel voltarsi verso di lui, Elia vide il generale Garibaldi che col solito sangue freddo camminava verso la formidabile posizione nemica vomitante fuoco e dalla quale poteva essere distante non più di cinquanta metri. Il pericolo che il generale correva fece correre un brivido per le ossa ai presenti; ed Elia si slanciava rapidamente verso lui, gridandogli con disperazione "Generale, se una palla vi colga tutto è perduto e con Voi la unità della patria nostra;" ma egli, calmissimo, procedeva in avanti. Con la fronte rivolta al nemico. Elia, che gli camminava a fianco, stava in indicibile angoscia pronto ad ogni evento, quando infatti vide un cacciatore borbonico abbassare l'arma e puntarla alla direzione del generale. Elia non ebbe che il tempo di fare un passo avanti alla persona di Garibaldi; un terribile colpo alla bocca lo rovesciava ed egli cadde a terra supino; coll'aiuto del generale che si era chinato su lui per dirgli un'affettuosa parola "Coraggio, mio Elia di queste ferite non si muore" egli potè volgersi bocca a terra e scampare l'imminente pericolo di essere soffocato dal sangue.
Intanto i napoletani fulminavano i nostri; in quel momento arrivava Bixio a spron battuto; parlò a Garibaldi brevi parole: e fu inteso il generale rispondere "No, Nino, qui si vince o si muore" e puntata la sua spada alla direzione della sempre formidabile posizione nemica, con tonante parola gridò: "Avanti ancora questo assalto o figlioli e la vittoria è nostra" e ordinata la carica si slancia per primo sull'erta, seguito da tutti i compagni che non erano caduti; e quel pugno d'uomini, trafelati, pesti, insanguinati, sfiniti da tre ore di corsa e di lotta, con nuova lena riprende la sua ascesa micidiale rigando ancora ogni palmo dell'erta terribile di altro nobile sangue, risoluti all'estremo cimento.
Come l'eroe aveva preveduto, la vittoria fu nostra. Incalzati di fronte da quello stuolo di indemoniati che parevano uscissero dalla terra, sgomenti dall'improvviso rombo dei nostri cannoni che il bravo Orsini era riuscito a portare in linea, turbati dal clamore crescente delle squadre siciliane sui loro fianchi, disperando ormai di poter vincere, voltarono le spalle, abbandonando il monte tanto fieramente contrastato e non si arrestarono che dentro Calatafimi.
Il miracolo era compiuto – la giornata era vinta! – La vittoria di Calatafimi fu incontestabilmente decisiva per la campagna del 1860 e per l'unità della patria – decisiva sopratutto indiscutibilmente, nel senso morale – perchè dalla giornata di Calatafimi la superiorità della Camicia rossa sulle truppe borboniche fu immensamente stabilita. – "Aiuto e pronto aiuto" telegrafava a Palermo la stessa sera del 15 il generale Lanza: ma poi credette miglior partito una precipitosa ritirata anche da Calatafimi.
Ecco come un eroe dei mille Giuseppe Cesare Abba, descrive nel suo aureo libro "da Quarto al Volturno" la gloriosa giornata di Calatafimi:
"Già tutta l'erta era ingombra di caduti, ma non si udiva un lamento. Vicino a me il Missori, comandante delle guide, coll'occhio sinistro tutto pesto e insanguinato, pareva porgesse orecchio ai rumori che venivano dalla vetta, d'onde si udivano i battaglioni muoversi pesanti, e mille voci, come flotti di mare in tempesta, urlare a tratti: "Viva lo Re".
"Frattanto i nostri arrivavano a ingrossarsi, rinascevano le forze. I capitani si aggiravano fra noi confortandoci. Sirtori e Bixio erano venuti a cavallo fin lassù.
"Sirtori, impassibile, colla frusta in mano, pareva non si sentisse presente a quello sbaraglio; eppure sulla sua faccia pallida e smunta io lessi qualcosa, come la volontà di morire fra tutti noi.
"Bixio compariva da ogni parte, come si fosse fatto in cento; braccio di ferro del generale. Lassù, lo rividi vicino a lui un altro istante.
" – Riposate, figliuoli, riposate un poco, diceva il generale – ancora uno sforzo e sarà finita! E Bixio lo seguiva fra le file.
"In quello il sottotenente Bandi veniva a salutarlo lì, per cadere sfinito. Non ne poteva più. Aveva toccate parecchie ferite, ma un'ultima palla gli si era ficcata sopra la mammella sinistra, e il sangue gli colava giù a rivi. Prima che passi mezz'ora sarà morto, pensai; ma quando le compagnie si lanciarono all'ultimo assalto, contro quella siepe di baionette che abbagliavano, stridevano, sì che pareva di averle già tutte nel petto, tornai a vedere quell'ufficiale fra i primi. "Quante anime hai?" gli gridò uno che deve essergli amico.
"Egli sorrise beato.
"In quel momento i regi tiravano l'ultima cannonata, fracellando a bruciapelo un Sacchi pavese; e fu da quella parte un grido di gioia perchè il cannone era preso. Poi corre voce che il generale era morto, e Menotti, ferito nella destra, correva gridando e chiedendo di lui. Elia giaceva ferito a morte; Schiaffino, il Dante da Castiglione di questa guerra, era morto, e copriva colla sua grande persona la terra sanguinosa.
"Quando, i nemici cominciarono a ritirarsi, protetti dai loro cacciatori, rividi il generale che li guardava e gioiva.
"Gli inseguimmo un tratto; disparvero. Dal campo stemmo a vedere la lunga colonna salire a Calatafimi, grigia lassù a mezza costa del monte grigio, e perdersi nella città. Ci pareva miracolo aver vinto.
"O gran giorno, o immortali quelle tre ore del combattimento! Ma se fosse stato perduto? Si accapriccia il cuore, immaginando Garibaldi vinto, i suoi a squadre, a gruppi, rotti, messi in caccia, uccisi per tutta quella terra da Calatafimi a Salemi, lontano, lontano; gli ultimi ad uno ad uno, chi qua chi là, scannati come fiere, fin sulle rive del mare; e la testa del generale mandata a Napoli; che la potesse vedere e finire di tremare quel Re! Si raccapriccia. E forse l'Italia non si sarebbe fatta mai più.
"Felici allora, ben felici i morti combattendo, che almeno non avrebbero visto la grande tragedia.
"Ma per fortuna d'Italia la vittoria fu nostra".
Sgominato il nemico, conquistata Calatafimi, chiave della posizione, ormai si era padroni delle tre vie conducenti a Trapani, a Castellammare, a Palermo. Ulteriore resistenza non era pel momento da prevedersi, ed inutile era anche l'inseguimento da parte dei garibaldini, perchè ad infastidire i fuggiaschi vi avrebbero pensato i bravi insorti siciliani.
Garibaldi pensò di dare un po' di riposo ai suoi, e volle che si passasse la notte sul conquistato campo di battaglia.
Le perdite nostre furono gravi rispetto al numero esiguo che rendeva prezioso ogni individuo; bisognava quindi aver cura dei feriti.
Trentadue dei mille rimasero sul terreno, fra i quali Schiaffino, Montanari, Pedotti, Sartori, D'Amicis; centottantadue i feriti fra i quali, Menotti Garibaldi, Elia, Maiocchi, Sirtori, Manin, Nullo, Missori, Cariolato, Bandi, Martignoni, Perducca, Palizzolo, Sprovieri, Bedischini, Carbonari, Pasquinelli, Della Torre, Della Casa, molti dei quali gravemente.
La mattina del 16 i garibaldini entrarono a Calatafimi fra gli evviva e le acclamazioni del popolo.
Posto il quartier generale al palazzo del Comune, Garibaldi emanava il seguente ordine del giorno:
"Con compagni come voi io posso tentare ogni cosa, e ve l'ho provato