Udivansi con grandissimo terrore le novelle di Bergamo e di Brescia a Venezia. Scriveva il senato, di cui queste cose molto angustiavano l'animo, le sue querele al ministro Lallemand; le scriveva al nobile Querini in Francia. Si rispondeva, che non si sapeva capire, che i Francesi non s'ingerivano, che la Francia era amica a Venezia, che qualche cosa si doveva pur dare alla natura delle soldatesche. Ma l'importanza era in Buonaparte, divenuto padrone della somma delle cose in Italia. Però mandava il senato appresso a lui i due Savj del collegio Francesco Pesaro, e Gian Battista Corner, affinchè gli dimostrassero, quanto offendessero la neutralità e la sovranità della repubblica le cose accadute in Bergamo ed in Brescia per opera dei comandanti Francesi, e quanto fossero contrarie alle protestazioni di amicizia, che la repubblica di Francia continuamente, ed anche recentemente aveva fatte a quella di Venezia. Oltre a ciò di nuovo, ed asseverantemente protestassero dell'incorrotta fede, e della costante amicizia del senato verso la Francia; stringesserlo a disappruovare pubblicamente la condotta dei comandanti delle due città ribellate, ed a restituire i due castelli, fonti evidenti della ribellione; richiedesserlo in fine, che consentisse, che il senato con le armi in mano rimettesse sotto l'obbedienza i ribelli. Trovato in Gorizia il generale repubblicano, espostogli il fatto dai legati, rispondeva, non abbastanza ancora essere sicure le sorti della guerra, perchè potesse restituire alla repubblica i castelli occupati: potrebbe il senato fare quanto gli sarebbe a grado per sottomettere i ribelli, purchè le genti Francesi, e gl'interessi loro non ne fossero offesi: del comandante di Bergamo, perchè questi più di quel di Brescia si era mescolato nella rivoluzione, ordinerebbe, fosse condotto a Milano e processato; sarebbe, se colpevole, castigato: allegava essere sincera la fede della Francia verso Venezia. Trapassando poscia più oltre, si offeriva ad usare le proprie forze per ridurre i novatori a divozione del senato, e che ove ne fosse richiesto, il farebbe. Toccava finalmente, che sarebbe bene, che Venezia più strettamente si congiungesse in amicizia colla Francia.
Covava in tutto questo una insidia: perchè mentre affermava Buonaparte, essere in potestà del senato il fare quanto gli parrebbe conveniente per ridurre all'ordine i ribelli, pubblicava Landrieux a Bergamo, forse volendo, per essersi effettuato quello che forse egli aveva voluto impedire, ricoprire con mostrar severità i sospetti, che potevano concepirsi di lui dai repubblicani di Francia e d'Italia, che nissuna gente armata sarebbe lasciata entrare nè in Brescia, nè in Bergamo, e che se alcuna vi si appresentasse, questa avrebbe assalito, come nemico, con tutte le sue forze. Ma le cose da più alta sede pendevano che da Landrieux, perchè visitato a Parigi dal nobile Querini uno dei cinque del direttorio, e dettogli, che poichè i Francesi protestavano, non volersi mescolare nel governo interno delle città Venete, doveva riuscire cosa indifferente al direttorio, se il senato rimettesse nel dovere i Bergamaschi, rispondeva risolutamente il quinqueviro, non lo sperasse, e che finchè fossero in Bergamo truppe Francesi, non l'avrebbe mai il direttorio permesso. Replicato dal Querini, che di tale divieto non comprendeva la ragione, soggiungeva il quinqueviro, ciò esser chiaro, perchè i Francesi essendo più forti dei Veneziani, a loro stava a comandare in quei luoghi; le quali voci certamente sono da stimarsi barbare; perchè bene si sa, e pur troppo, che queste cose spesso si sono fatte; ma l'asseverare con tanta fronte, che sia diritto e giusto farle, è nuovo del tutto. Terminava il quinqueviro dicendo, che infine non toccava alla repubblica di Venezia a comandare alla Francese, e che vedeva bene, che i discorsi del Quirini dimostravano, che il governo Veneto non si fidava nella lealtà del direttorio, ma che se così fosse, avrebbe potuto farlo pentire. Da ciò si vede, quale concetto si debba fare della condiscendenza di Buonaparte. In tale modo si sollevavano dai capi dell'esercito repubblicano i sudditi contro Venezia, ed a Venezia si vietava che gli sottomettesse.
Alle gravissime proposte del capitano di Francia si scuotevano i legati, parendo loro, come era veramente, cosa enorme, pericolosa, e di pessimo esempio, che soldati forestieri si adoperassero per tornare a divozione i ribelli della repubblica. Per la qual cosa negavano la offerta, restringendosi con dire, che poichè i castelli erano in mano dei Francesi, e servivano di appoggio ai turbatori dell'antico stato, ragion voleva, acciocchè si pareggiassero le partite, ch'ei facesse qualche dimostrazione pubblica per disappruovare i moti, che si erano suscitati. Al che non consentendo rispondeva, che in mezzo all'ardore di quelle nuove opinioni che molto avevano ajutato le sue armi, sarebbe certamente incolpato, se ora si dimostrasse avverso a coloro, che si erano scoperti fautori del nome e delle massime di Francia; che solo a ciò fare si sarebbe piegato, quando il direttorio precisamente glie l'avesse comandato. Tornava poscia sul parlare di più stretti vincoli d'amicizia colla Francia, proponendo per esempio il re di Sardegna, ed affermava, esser questo il mezzo migliore per frenar le rivoluzioni. Le quali esibizioni ed esortazioni, chi si farà a considerare fino a qual termine già fossero trascorse le cose, e le offerte fatte all'imperatore Francesco, saranno testimonio certo, ch'elle avevano tutt'altro fine, che la salute di Venezia. Del resto, senza tanti giri di parole, e serbando anche in sua potestà, per sicurezza del suo esercito, i castelli di Bergamo e di Brescia, bastava bene che il generalissimo ordinasse, o che con un cenno solo significasse, che Bergamo e Brescia ritornassero all'obbedienza di Venezia, che i magistrati instituiti dai novatori cessassero l'ufficio, e che quei del senato fossero restituiti al loro, perchè tutte queste cose avessero incontanente la loro esecuzione. Anzi il solo dichiarare, ch'egli disappruovava quelle due rivoluzioni, e che contro la sua volontà erano state effettuate, avrebbe rintegrato subitamente nelle due città ribelli il consueto dominio. Il non averlo voluto fare dimostra viemaggiormente i disegni sinistri. Strana esibizione di Buonaparte era questa di voler far tornare all'obbedienza quelle terre, ch'egli stesso aveva incitato a ribellione; imperciocchè, senza andar più vagando in questa materia, certa cosa è, che per ordine espresso di lui furono fatte ribellare ai Veneziani le città Veneziane, di cui si tratta. Rispondevano i legati della repubblica, volere il senato l'amicizia di Francia, dell'alleanza risolverebbe quando, ritratta l'Europa da quell'immenso disordine, e ricomposta in quieto stato, potrebbe