Faceva Lallemand l'ufficio, i comandamenti di Buonaparte al senato rappresentando. Del quale chi vorrà considerare il tempo, e le circostanze, non potrà non sentirsi commovere a grave sdegno contro chi il moveva, ed a non poca compassione verso chi era mosso; perchè vi si accusava la repubblica di Venezia di oltraggi, quando l'estremo oltraggio già era stato, non solo da lungo tempo meditato, ma recentemente concluso contro di lei, vogliam dire la vendita de' suoi stati; si accusava il senato d'incendj, di omicidj, di tiri di cannone commessi da particolari uomini, che il senato voleva e riparare e compensare all'accusatore, se veramente egli avesse voluto essere riparato e compensato: si offeriva la restituzione di Bergamo e di Brescia, quando appunto Bergamo e Brescia erano state fatte ribellare dall'offeritore, e nominatamente Bergamo e Brescia date in mano all'imperatore; si comandava che si disarmassero i popoli Veneziani, perchè amavano meglio esser Veneziani che Francesi ed Austriaci, ed appunto si comandava che si disarmassero, perchè il comandatore potesse meglio, e più comodamente dargli in preda ad un dominio forestiero; muovevansi lagnanze sui predicatori, come se i predicatori avessero dovuto inculcare piuttosto la tirannide forestiera che la signorìa paesana, e non fosse loro lecito il difendere la patria contro un tradimento; si voleva che il senato mantenesse la quiete nella terraferma, non con masse incomposte, ma con genti regolari, e poi quando mandava genti regolari, i comandanti Francesi negavano loro i passi pei ponti, per le strade, per le fortezze, e gridavano volere Venezia far guerra alla Francia; si domandava finalmente che il senato non pensasse solamente alle lagune, ma avesse cura anche della terraferma, quando già si era accusato, e minacciato il senato, solo perchè aveva armato l'estuario, per modo che l'armare ed il non armare era da Buonaparte imputato a delitto al senato. Insomma chi conosce i patti di Leoben già offeriti molti mesi prima dal generale del direttorio all'Austria, già concertati nella tregua dei sette, poi solennemente stipulati nei preliminari dei diciotto, conoscerà facilmente di che sapessero le parole di Buonaparte. Quel volere poi che si liberassero i carcerati per opinione, fra i quali si annoveravano non pochi Bresciani, Bergamaschi e Salodiani, e lo stesso Gambara, presi combattendo con le armi in mano contro il proprio principe, era oltraggio di sovranità, incentivo di ribellione.
Rispondeva per bocca del doge il senato a Buonaparte: «Nella somma amaritudine che ha sentito il senato nel conoscere dalle vostre lettere, avere l'animo vostro concetto sinistre impressioni sulla ingenuità della nostra condotta, ci riesce di qualche conforto il vederci aperta la via di poterle pienamente dileguare con le pronte e precise nostre risposte. Vuole il senato, ed ha sempre voluto vivere in pace ed amicizia con la repubblica di Francia, e piacegli in questo punto ratificare solennemente questa sua risolutissima volontà. Nè potrebbe certamente una così aperta, e così solenne dichiarazione venir oscurata da accidenti, che con lei non hanno correlazione alcuna: poichè, sorta la fatale, e del tutto inaspettata rivoluzione nelle città nostre oltre Mincio, la fede e l'amore delle popolazioni le fece correre spontaneamente all'armi col solo intento di frenar la ribellione, e di respingere le violenze dei sollevati. A questo unico fine implorarono esse dal proprio governo assistenza, e presidj; che se in tanto turbamento di cose sorsero alcuni accidenti disgustosi, alla confusione inevitabile debbono unicamente, non alla volontà del governo attribuirsi. Tanto è alieno da essi il senato, che, per allontanare anche il più rimoto pericolo, ha con recente manifesto comandato ai sudditi, che contro i sollevati non istessero ad usar le armi, se non nel caso della propria difesa. Ma essendo noi su tale argomento disposti a secondare con le opportune risoluzioni i vostri desiderj, bene conoscerà la equità vostra, che al tempo medesimo diventa necessario che l'amore volontario delle popolazioni fedeli verso di noi, e la comune nostra tranquillità siano guarentite da insulti esterni, e da perturbazioni interne. Vuole, ed è pronto il senato a soddisfarvi dell'altra richiesta, per castigo e consegna di coloro che han commesso uccisioni sulle persone dei vostri soldati, e sarà per noi diligentemente ordinato, che siano conosciuti, arrestati e secondo i meriti loro castigati. Per conseguire più acconciamente, ed a contentezza d'ambe le parti tutti i raccontati effetti, mandiamo due legati a voi, dai quali intenderete la somma compiacenza nostra, e insieme quanto grato ci sarebbe, che voi interponeste l'efficace vostra autorità presso al vostro governo per ricondurre all'ordine, ed al primiero stato le città d'oltre Mincio, che si sono da noi allontanate. Con questo vi confermiamo di nuovo, e protestiamo la costanza, e la sincerità dei nostri sentimenti verso la vostra repubblica, in un con la molta osservanza, in cui abbiamo la vostra illustre e riputata persona».
Deputava il senato per alleggerire i sospetti, e per intrattenere Buonaparte dell'estremo fato della patria, Francesco Donato censore, e Leonardo Giustiniani, savio alla scrittura uscito. Intanto funeste novelle consentanee all'aspetto delle cose presenti, ed annunziatrici di ultima ruina, arrivavano da Vienna e da Parigi. Avvisava l'ambasciador Grimani, apparir segni che la repubblica avesse ad esser data in preda all'Austria; in questo adoperarsi la corte di Napoli per istornar la tempesta da lei; adoperarvisi la Spagna, adulatrice di Francia, e desiderosa che il duca di Parma acquistasse un incremento di territorio col titolo di re: avervi anche le mani mescolate il re di Sardegna, in cui rimaneva l'antica cupidità di allargarsi in Italia; affollarsi tutti intorno a Francia, adularla, prometterle, esortarla a male opere; non aver più amici la repubblica debole, esser fatta bersaglio alle potenze, bramose tutte di prendersi quel d'altrui; starsene cupa e silenziosa l'Austria; esser disposta ad accettare il prezzo; pure splendere ancora un raggio di speranza, se si mantenesse intero ed incorrotto l'antico governo; cambiarlo, aver ad essere la morte della repubblica. Così i potentati Italiani stessi, in preda ancor essi alla cupidigia del volere appropriarsi quel d'altrui, non giudicavano quanto fosse a proposito della salute d'Italia il non lasciar perire Venezia.
Simili cose scriveva il nobile Querini da Parigi, ma come se velate da maggior dissimulazione alle orecchie sue pervenissero; perchè ora erano minacciose le parole del direttorio, ed ora dolci; ora accusava Venezia, ed ora la scusava, e da tante ambagi niuna cosa certa poteva ritrarre l'ambasciadore Veneto, se non se che si macchinava qualche gran trama contro la repubblica, e che era pericolo che l'Austria, per consentimento della Francia, se la rapisse. Ma perchè non mancasse alcuna lagrimevole condizione in così grave e così vicino pericolo, fu provato da gente vendereccia di sottrarle denaro sotto promessa di salute. Un certo Viscovich, di nazione Dalmata, si appresentava al nobile Querini, dicendo che era in mano sua il salvare la repubblica; che in quel punto stava deliberando il direttorio, se convenisse spegnere le rivoluzioni della terraferma con dar mano forte al senato, o di condurle a compimento con dare fomento ed ajuto ai ribelli; che due direttori erano in favore della repubblica, due contro, il quinto in pendente; che quello era il tempo di spendere per la salute comune; che ove il senato volesse dar sette milioni di franchi, Venezia sarebbe preservata; che di presente abbisognavano seicento mila franchi pel direttore titubante, con altri cento mila pei beveraggi agl'intromettitori. Rispondeva Querini, non avere autorità di obbligare il pubblico per tanta somma. E brevemente, pressato poi dal Viscovich, che la cosa era alle strette, che quello non era tempo da perdere, che se non prometteva, in quel giorno stesso si statuiva la morte della repubblica, si lasciava tirare a dir del sì per somma sua divozione verso la patria, e sottoscriveva biglietti per seicento mila franchi sopra Pallavicini di Genova, con patto che stessero in deposito, finchè non avesse in sua mano una lettera scritta dal direttorio a Buonaparte, intimatrice del dover frenare i faziosi della terraferma, e ridurre le città sotto il dominio. La lettera non potè avere Querini; bensì gli fu consegnata una carta col titolo in fronte, e colla marca del direttorio esecutivo, e sottoscrizione del segretario di Barras, per cui si affermava, che la lettera del descritto tenore era stata scritta dal direttorio a Buonaparte. Fu il trattato approvato dal governo a Venezia: mandavasi al console in Genova, s'intendesse con Pallavicini, perchè obbedisse le cambiali del Querini. Stava in aspettazione l'ambasciatore di quello che avesse a succedere; ma vedendo le cose della terraferma andar sempre di male in peggio, richiedeva Viscovich della restituzione dei