Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III. Botta Carlo. Читать онлайн. Newlib. NEWLIB.NET

Автор: Botta Carlo
Издательство: Public Domain
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Жанр произведения: Зарубежная классика
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forche erano trovati bugiardissimi, perchè Battaglia, trovandosi allora in Venezia, non era in potestà di Buonaparte nè di farlo arrestare, nè di farlo impiccare. La verità della storia richiede oltre a ciò, che noi scriviamo, che il provveditore non era nemmeno per venire in potestà del generale; perchè quando Buonaparte distrusse Venezia, domandò la prigionia e la morte di tutt'altre persone che di quella di Battaglia, ancorchè egli fosse il più colpevole di tutti verso i Francesi, se opera sua fosse stato il manifesto: che anzi Buonaparte accarezzò Battaglia, e se lo tenne molto caro. Noi sappiamo, che il provveditore era partigiano di qualche riforma negli ordini dello stato; ma che Buonaparte avesse altre cagioni di amarlo, noi non vogliamo nè affermare nè negare, ancorchè troviamo scritto, che questo Veneziano abbia servito ai disegni del generale Francese più di quanto la libertà, e l'independenza della sua patria comportassero.

      Allontanava da se Battaglia l'infamia del manifesto con ismentirlo: lo smentiva solennemente il senato. Ma nulla giovava; perchè i tempi erano più forti delle protestazioni, ed era strana veramente, e compassionevole cosa il vedere, che gl'innocenti cercassero di giustificarsi appresso i rei di un delitto, che essi rei contro gl'innocenti avevano commesso, e che a loro per distruggergli imputavano; condizione unica per certo, che sia stata al mondo, e degna veramente della malvagità di quei tempi.

      Rivoltate le regioni d'oltre Mincio dall'antico dominio dei Veneziani, era a Buonaparte spianata la strada alla distruzione di quel nobile ed innocente stato. Restava, che le sue condizioni divenissero tanto sicure rispetto agli Austriaci, ch'ei potesse senza pericolo mandar fuori quello, che già da lungo tempo si era nell'animo concetto. A questo gli dava occasione la tregua sottoscritta coi legati dell'imperatore il dì sette aprile a Judenburgo; alla quale conclusione non si venne nè da una parte nè dall'altra, se non promessi, ed accettati i compensi a spese della repubblica Veneziana. Solo restava all'Austria qualche residuo di renitenza al consentire, per accomodar se, ad accettar le spoglie di un governo, dal quale non aveva ricevuto alcuna ingiuria, col quale era congiunta d'amicizia, e che anzi a motivo di questa sua amicizia si trovava ridotto a tali compassionevoli strette. A questo rimediava Buonaparte col far rivoltare lo stato dei Veneziani, anche sulla sinistra del Mincio; perchè se ripugnava all'Austria il nuocere a Venezia sotto il governo antico, bene sapeva che non le ripugnerebbe il nuocerle sotto il nuovo, odioso a lei pei principj, non congiunto con lei per alcun vincolo di amicizia. Non così tosto ebbe sottoscritto la tregua coll'imperatore, che incominciò le dimostrazioni ostili contro i Veneziani; il che mandò ad esecuzione in vari modi, ma che tutti tendevano al medesimo fine. Primieramente mandò il suo aiutante Junot con amare condizioni a fare un violento ufficio a Venezia non senza grave ferita alla dignità della repubblica. Arrivato Junot altieramente richiedeva per parte del generalissimo di essere udito incontanente in pien collegio dal serenissimo principe. Correvano allora i giorni santi; era il sabato, in cui per antico costume non sedevano i magistrati, intenti in quel giorno a celebrar nelle chiese i divini misteri. Avvertivanne Junot; ma egli, giovane impaziente mandato da un giovane impazientissimo, insisteva dicendo, o l'udissero subito, o appiccherebbe le cedole della guerra ai muri. Credettero i padri, che il derogare all'uso antico fosse minore scandalo di quanto era capace di commettere quel soldato, e consentirono ad udirlo la mattina del sabato. Introdotto in collegio, dov'erano adunati il doge, i suoi sei consiglieri, i tre capi della quarantia criminale, i sei savi grandi, i cinque di terraferma, ed i cinque agli ordini, leggeva, con parlare prima timoroso per la sorpresa, poi superbissimo per la natura, una lettera, che scriveva Buonaparte al doge il dì nove aprile da Judenburgo, ed era quest'essa: «Tutta la terraferma della serenissima repubblica di Venezia è in armi: in ogni parte sollevati ed armati gridano i paesani morte ai Francesi, molte centinaja di soldati dell'esercito Italico già sono stati uccisi; invano voi disappruovate le turbe raccolte pei vostri ordini. Credete voi, che nel momento in cui mi trovo nel cuore della Germania, io non possa far rispettare il primo popolo dell'universo? Credete voi, che le legioni d'Italia sopporteranno pazientemente le stragi, che voi eccitate? Il sangue de' miei compagni sarà vendicato: a sì nobile ufficio sentirà moltiplicarsi a molti doppi il coraggio ogni battaglione, ogni soldato Francese. Con empia perfidia corrispose il senato di Venezia ai generosi modi usati da noi con lui. Il mio aiutante, che vi reca la presente, è portatore o di pace, o di guerra. Se voi subito non dissolvete le masse, se non arrestate, e non date in mia mano gli autori degli omicidj, la guerra è dichiarata. Non è già il Turco sulle frontiere vostre, nissun nemico vi minaccia; d'animo deliberato voi avete inventato pretesti per giustificar le masse armate contro l'esercito; ma ventiquattr'ore di tempo, e non saran più: non siamo più ai tempi di Carlo Ottavo. Se, contro il chiaro intendimento del governo Francese, voi mi sforzate alla guerra, non pensate per questo, che ad esempio degli assassini, che voi avete armati, i soldati Francesi siano per devastar le campagne del popolo innocente e sfortunato della terraferma. Io lo proteggerò, ed egli benedirà un giorno fino i delitti, che avranno obbligato l'esercito Francese a liberarlo dal vostro tirannico governo».

      Qui non è bisogno aggiungere discorsi per giudicare di così fatta intimazione. Solo si debbe avvertire che i paesani, che difendevano il loro sovrano, non si sarebbero mossi, e non avrebbero ucciso i soldati Francesi, se gl'insidiatori con mandato espresso del generale di Francia non avessero seminato la ribellione. Del resto alcuni pur troppo furono uccisi, ma non a centinaia, come la solita buonapartiana gonfiezza ebbe allegato. Taccio la villania di parlare con tali espressioni ad un principe, in cui era raccolta tutta la nazione Veneziana. Se questa è grandezza, come alcuni stimano, io non so che cosa sia piccolezza.

      A tale vituperio ed a tanta indegnità una sola risposta era da farsi, se pure la umanità e la civiltà l'avessero permessa, e quest'era di tuffar in mare Junot, e di correre subitamente all'armi per veder quello, che volessero i cieli definire. Bene dovevano i Veneziani, non tuffar Junot, ma sì impugnar l'armi; ma nè i tempi nè gli uomini erano abbastanza forti in Venezia. Ridotto il principe di sì antica e nobile repubblica a condizione tanto abietta, rispose pacatamente, delibererebbe il senato; avere sempre nodrito sentimenti di lealtà e di amicizia verso la nazione Francese. Intanto le crudeli calunnie, l'incredibile insulto, le disgrazie imminenti avevano riempito l'animo dei circostanti d'orrore e di terrore.

      Acerbe lettere scriveva il dì medesimo dei nove aprile il generalissimo a Lallemand: non potersi più dubitare, che l'armarsi dei Veneziani non avesse per fine di serrare alle spalle l'esercito di Francia; non aver mai potuto restar capace del come Bergamo, città fra tutte le altre degli stati di Venezia dedita al senato, si fosse armata contro di lui; meno ancora aver potuto comprendere come per calmare quel piccolo ammutinamento abbisognassero venticinque mila armati, nè perchè quando si era Pesaro abboccato con lui in Gorizia, avesse rifiutato la mediazione di Francia per ridurre ad obbedienza i paesi sollevati; gli atti dei provveditori di Brescia, Bergamo, e Crema, in cui si affermava, essere la sollevazione opera dei Francesi, essere bugie inventate a disegno per giustificare in cospetto dell'Europa la perfidia del senato Veneziano; avere il senato usato la occasione, in cui egli innoltratosi nelle fauci della Carintia, aveva a fronte il principe Carlo, per mandar ad effetto una fraude, che sarebbe prima d'esempio, se non fossero quelle ordite contro Carlo Ottavo, ed i Vespri Siciliani; essere stati i Veneziani più accorti di Roma, poichè avevano usato il momento, in cui i soldati erano alle mani con gli Austriaci; ma non aver ad essere i Veneziani più fortunati di Roma: la fortuna della repubblica Francese stata a fronte di tutta Europa, non si romperebbe nelle lagune Veneziane.

      Dette queste cose, annunziava le accuse contro i Veneziani: avere una nave Veneziana, a fine di tutelare una conserva Tedesca, combattuto la fregata Francese la Bruna; essere stata arsa la casa del console a Zante, insultato il console stesso; averne mostrato allegrezza il governatore; diecimila paesani armati, e pagati dal senato avere ucciso tra Milano e Bergamo cinquanta Francesi; piene essere, malgrado delle promesse di Pesaro, di soldati Verona, Padova, Treviso; arrestarsi in ogni luogo gli amici della Francia; porsi a guida degli assassini gli agenti dell'imperatore; gridarsi per ogni parte morte ai Francesi; furibondi i predicatori pubblicare da ogni cattedra la volontà del senato, stimolare contro la Francia; vera ed effettiva condizione di guerra essere tra Francia e Venezia; saperlo Venezia stessa, che altro modo non trovava di giustificarsi, che il disappruovare con parole quelle masse, che coi fatti armava e pagava: domandasse adunque Lallemand, concludeva, a Venezia, che risolutamente rispondesse, se avesse pace o guerra con Francia: se guerra, partisse incontanente; se pace, domandasse che i carcerati per opinione, e di non altro rei che di amare i