Erano facce nuove per Maurizio, che pur dovette salutare, imitando la sorella, in risposta al primo saluto del signore dai baffi biancheggianti. Il quale, rinnovando il saluto, o piuttosto appoggiandolo con un cenno del capo, si voltava ancora un tratto a guardare, e sicuramente per veder meglio lui, che gli giungeva nuovo egualmente.
– Villeggianti precoci! – disse Maurizio alla sorella. – Ma già, niente maraviglia, se ci son già le rose al Castèu.
– Non villeggianti; vivono tutto l’anno a San Giorgio. Non conosci più i proprietarii della Balma? – rispose Albertina, sospirando.
– Povera Balma! – ripigliò il giovane, che aveva colto a volo il sospiro. – Ma non è dunque più dei Matignon della Bourdigue?
– Lo è sempre. E quel signore dei baffi bianchi è il generale, il cadetto della famiglia.
– Come? come? il capitano, quello? così smilzo allora, e così biondo, che lo chiamavano l’Arcangelo Gabriele?
– Lo hai lasciato capitano, biondo, smilzo, ed ora è complesso, bianco e generale; – rispose Albertina, ridendo. – Pensa, caro mio, che son passati venti anni.
– È vero; – conchiuse Maurizio, chinando la testa. – Il capitano della Bourdigue, nizzardo, che aveva optato nel ’61 per la Francia. E come è passato ora a vivere di qua dal confine?
– Il fratello maggiore è morto cinque anni fa. Rimasto unico dei Matignon, ha preso il suo ritiro, ed è venuto a vivere alla Balma.
– E quella signora è sua figlia?
– No, sua moglie.
– Come? ma se ha l’aria di una ragazza! O figlia, o nipote, avrei detto.
– Ed è sua nipote, infatti.
– Ah, ora ci sono; – gridò Maurizio. – La figlia del signor Camillo… il miscredente. —
Il volto della contessa Albertina si rabbruscò, a quella scappata del fratello Maurizio.
– Perchè miscredente? – diss’ella con accento di mite rimprovero.
– Lo dicevano, allora, ed io ripeto quel che ho sentito. —
Avrebbe voluto soggiungere: lo diceva perfino nostro padre. Ma capì di aver abbastanza amareggiato l’animo della sua dolce sorella, senza bisogno di metterlo ancora in angustia colla testimonianza del babbo.
– Sarà stato uno scherzo; – diss’ella ripigliando. – Del resto, tu sai che il mondo s’inganna facilmente a certe apparenze, per discorsi male intesi e peggio riferiti. Comunque sia, il meglio che si possa fare…
– È di non credere alla miscredenza; – interruppe Maurizio, compiendo a suo modo la frase impacciata di sua sorella Albertina. – Hai ragione, sai? nel caso particolare e nel caso generale, hai ragione. È bene di non ripetere certe cose, neanche a sè stesso. Ed ecco, – soggiunse egli, – che cosa vuol dire andar via da casa, per ritornarci dopo vent’anni, con tanto viatico d’esperienza. Io ho lasciata qua la mia buona filosofia, che mi sarebbe stata tanto utile laggiù. Per fortuna, la ritrovo ora, messa ad interessi composti, sotto il tetto paterno.
– Eh via, non ti far così brutto, ora; – disse di rimando Albertina. – Ti ho veduto poc’anzi in chiesa, e non mi sei parso niente diverso da quello di venti anni fa. Eri serio, composto… e divoto.
– Ma sì, come bisogna essere in chiesa. O non ci si va, o ci si sta come si deve. Dopo tutto, non è la casa del nostro superiore? del grande ammiraglio, di quello, io voglio dire, che non commette ingiustizie? —
Capitolo III.
Cortesie di buon vicinato
Passarono tre giorni, che Maurizio occupò degnamente in cento piccole cure. Prima di tutto aveva da riconoscer la casa, dopo tanti anni d’assenza, da vedere tutte le novità che c’erano state fatte in quel lungo intervallo, il parco, il giardino, l’orto, il frutteto, la fagianaia, il pollaio, insomma tutto ciò che sua sorella Albertina aveva ordinato, o condotto a termine, o perfezionato, affinchè il Castèu, com’ella diceva, bastasse a sè stesso.
– Egregiamente; – notava Maurizio, approvando. – Credo che si potrebbe sostenere anche un anno d’assedio.
– Capisco che tu ci avresti tempo di annoiarti; – rispondeva Albertina.
– No, sai; tu coi tuoi polli e coi tuoi fagiani; io coi miei libri, le mie carte, i miei strumenti; si passerà il tempo benissimo, e il peggiore dei nemici non avrà modo di penetrare qua dentro. —
Maurizio aveva ricevuti da Ventimiglia i suoi bauli e le sue casse. Tutto era già stato aperto, schiodato, sciorinato; libri, carte geografiche, idrografiche, bussole, cannocchiali, seste, sestanti, cronometri, tutto il bagaglio scientifico dell’ufficiale di marina. Il legnaiuolo della casa era stato chiamato, e sotto la direzione di Maurizio lavorava ad aggiustare, ed aggiungere scaffali, a piantar chiodi e bullette, ad appender quadri, stampe, fotografie, armi, stoffe, amuleti, stoviglie, tutto il museo dell’ufficiale di marina che era stato anche un viaggiatore intelligente e curioso. Era quello un lavoro faticoso, ma gaio; e lo rendeva più gaio il pensiero della quiete futura, in cui Maurizio avrebbe potuto finalmente metter mano alla sua Storia delle Guerre marittime. Quella, davvero, non gli usciva di mente.
La mattina del quarto giorno, mentre era in maniche di camicia su d’una scala di legno appoggiata alla parete, gli fu portata da Giaume una lettera.
– Già la posta a dar noia! – esclamò egli, seccato.
Non era della posta; era una lettera del paese.
– Mettila là, su quella tavola. Chi l’ha portata?
– Il fattore della Balma.
– Ah! – disse Maurizio; e più non disse.
Com’ebbe finita l’operazione per cui si era inerpicato lassù, scese tranquillamente e andò a prender la lettera, che portava scritto sulla busta: «Al signor conte Maurizio Sospello di Vaussana; Sue mani», e sul rovescio un gran suggello di ceralacca, con lo stemma dei Matignon della Bourdigue. Maurizio prese con molta flemma una spatola d’avorio, ne introdusse delicatamente la punta sotto la piega della busta, ne tagliò tutto il lato superiore, trasse il foglio che c’era dentro ripiegato in due, lo spiegò lentamente e lesse ciò che gli scriveva il castellano della Balma:
“Signor Maurizio,
«Quando un ufficiale va in un paese e sa che c’è un altro ufficiale a lui superiore di grado, va a fargli una visita, non vi pare? Sarebbe prescritta l’uniforme; ma io non la esigo; anzi ve ne dispenso. Non vi dispenso però dalla visita. Andrei contro la legge, venendo io stesso da voi, se nella mia condizione di ospite non avessi qui cura d’anime. Vi ho conosciuto bambino, e credo anche di avervi in quei tempi consegnato qualche amorevole scappellotto. Non vi dispiacerà il ricordo, poichè desidero di mutarlo in una buona stretta di mano.
«Conoscete la via della Balma. Dieci minuti di salita, per gambe come le vostre, e al piè delle scale un vecchio amico a braccia aperte.
Maurizio lesse e sorrise; ripiegò il foglio, dopo avergli data ancora una rapida scorsa, lo rimise nella sua busta, e depose questa sulla tavola; dopo di che ritornò al suo lavoro. Alle dodici il legnaiuolo si congedò, per andarsene a desinare.
– Ripasserò alle due, signor conte; – diss’egli.
– No, per oggi basterà; – rispose Maurizio. – Ho da far altro; ritornerete domattina, all’ora solita. —
E anch’egli discese, dopo essersi messo in ordine, per andare ad asciolvere. Dopo il pasto mattutino, andò nelle sue stanze a mutar abiti.
– Vai fuori? – gli chiese Albertina, vedendolo così vestito di tutto punto.
– Sì, alla Balma. Vedi che cosa mi scrive il tuo generale. —
Così