Eravamo in due all’Acqua Novella, te ne rammenti? C’è là, in un angolo felice della nostra Liguria occidentale, il più antico e il più recente mio ricordo campestre. Vidi da bambino ed amai quella voltata in discesa dalla balza di Bergeggi a Spotorno, con le rovine dell’èremo di Sant’Antonino, piantato nel vivo della rupe ferrigna, sotto i ciuffi degli arbusti che gli fanno ombra dal ciglio sfaldato del gran masso imminente. Era allora il mio sogno d’essere il padrone dell’èremo, di restaurarlo, di farmi frate là dentro, frate di un ordine mio, molto benedettino per la copia dei libri, molto templario per la quantità dei conversi; gaudenti essi della vita materiale, gaudente io della felicità intellettuale, in quella grata solitudine, difesa dai venti freddi, con quel lembo di cielo opalino, con quella lista di mare turchino davanti, dimenticando tutto l’altro dello spazio e del tempo, ignorando l’ora degli altri, aspettando la mia senza troppo curarmene. Veramente, l’orologio non era lontano; orologio solare, sul terrazzo di una casa verdognola, trecento passi più in là, nel bel mezzo di un orto; con quella sua leggenda: «ultima necat» che fu la prima frase latina capitata davanti a’ miei occhi, e che mi dava sempre tanto da pensare, tutte le volte che passavo da quelle parti. Quando fui in grado da intenderla, amai compirne l’idea, premettendole un «vulnerant omnes». Ma per allora non era il caso di filosofarci su; ed io non filosofavo, sentendo il desiderio di quella pace, sognandola tutta per me.
Era un sogno, e finì come finiscono i sogni. Ma i bei sogni si ricordano volentieri; ed io più volentieri l’ho ricordato, tornando or non è molto con te alla tua bella Spotorno, bianca lucente sulla spiaggia lunga, tra la voltata di Bergeggi e il monte Orsini, aspra guardia di Noli. Ad un certo punto, e di comune accordo, abbiamo fatta fermar la carrozza; io per contemplare il mio èremo, tu per farmi bere un sorso della fontana lì presso, l’Acqua Novella, zampillante da una gran vasca quadrata, sul margine della strada maestra. O acqua ben nomata, veramente fresca, ristoratrice e pura, come tutte le cose novelle! Io non sogno più solamente il mio vecchio èremo e la mia vecchia meridiana; sogno ancora l’Acqua Novella e quel buon tratto di strada quieta, che abbiamo fatta a piedi con tanta allegrezza, mentre i cavalli ci seguitavano al passo. E penso ancora, nel mio sogno, che l’uomo più felice della terra debba essere un certo guardiano di strada ferrata, che ha il suo casotto in quelle vicinanze, col suo orticello, i suoi fagiuoli e il suo gran fico brogiotto, accanto allo sbocco della galleria di Bergeggi. Poveraccio! e forse egli sogna a sua volta un trasloco, una promozione, che lo sbalzi guardia eccentrica o guardia di sala in qualche stazione importante, donde gli sia facile di mandare a scuola le quattro o cinque creaturine che senza fatica, quasi senza un pensiero al mondo, gli sono rampollate là dentro.
Son tutti così, i miei bravi cantonieri di strada ferrata. Ricordo ancora quello di Varigotti, conosciuto tanti anni fa. Aveva anche lui una bella fontana daccanto, anzi una vera cascata d’acqua, che piombava dalla balza rossastra, sotto la chiesuola abbandonata di San Lorenzo; aveva un orticello, con pèschi, fichi e fagiuoli, ch’erano una maraviglia a vederli; aveva il gran mare turchino davanti, e tutt’intorno, da ogni piega del terreno, da ogni borro, da ogni fenditura della rupe, occhieggiavano a lui tra lucide foglie di smeraldo i bei limoni dal color dell’oro. Per esser felice, non gli mancava neanche una moglie, giovanissima, bella e savia, amante del lavoro e di lui. Ma quello ci aveva il mal del paese; voleva lasciare quel sorriso di cielo e di mare, quel profumo, quel tepore, quella gloria, per ritornarsene al suo nido natale, o non troppo discosto, tra Bussoleno e Modane, sotto le Alpi nevose, a sentir cantare gli aquiloni e scrosciar le valanghe. Barattava male, e non fu difficile contentarlo. Sarà felice, ora? Ah, penso che Gabriello Chiabrera fu ben ispirato, il giorno che sul portone della sua casa fece scolpir l’oraziano: «Nihil est ab omni parte beatum».
Ma se una felicità compiuta non si ritrova in nessun luogo, neanche là dove io l’avevo sognata, bene mi sarà lecito di desiderare che la vita sia più ricca d’ideale, e che un’acqua novella, se pure non ci si debba vivere accanto con oraziana serenità, rinfreschi e purifichi le nuove generazioni; che il sentimento del divino, ingenito nella coscienza umana, si accordi un giorno colla critica non più arrogante di facili dispregi, colla scienza non più infatuata di sollecite deduzioni, e venga in buon punto a rinvigorire di nuovi succhi la povera morale intristita. Questo è il mio sogno dell’età matura, e credo che questo sia pure il tuo. Tu hai, a buon conto, una famiglia nata di te; vuoi che abbia i tuoi stessi ideali, riflettendo alcun che di quelli che tu stesso derivi dai tuoi vecchi; ai quali con animo reverente mando un augurio e un saluto filiale ancor io.
Comunque esso sia riuscito per l’arte, il mio libro è morale. Non già come un trattato; credo anzi che ci corra molt’acqua, e tutt’altro che novella, di mezzo. Ma esso è morale, nondimeno, come può essere tale un romanzo; cioè a dire una rappresentazione della vita reale, aspersa d’una certa idealità, che è poi la nota personale fatalmente recata dall’artista nella cosa veduta, nella cosa sentita ed espressa.
Ritorneremo col bel tempo all’Acqua Novella e al vecchio èremo diroccato. Tu ama intanto il tuo
Capitolo Primo.
Addio, bel mare!
Gli avevano fatta un’ingiustizia, saltandolo nelle promozioni; perciò, a mala pena sbarcato, aveva mandata la sua dimissione al ministro. Per la via gerarchica, s’intende; e il capo del suo dipartimento marittimo, alla Spezia, si era degnato di esortarlo a pensarci su, almeno un paio di giorni. Per non fargli dispiacere col mostrarsi sconoscente alla cortesia del superiore, aveva accettato il consiglio; ma, quarantott’ore dopo, si era ripresentato al suo illustre capo, pregandolo di dar corso alla lettera.
Tra gli uguali, qualche amico sincero aveva tentato dissuaderlo, arrischiandosi a dirgli che commetteva un errore; ma egli non aveva voluto convenirne. Altri gli dicevano: «Fai bene; è stata un’ingiustizia; le ingiustizie non si sopportano». Ed egli rispondeva con un vivo cenno di assenso, quasi di ringraziamento, come uno che si senta compreso, congedandosi con una poderosa stretta di mano da tutti quei vecchi compagni, ai quali lasciava un gradino vuoto su quella scala di Giacobbe che conduce al paradiso del viceammiragliato.
Era sicuro del fatto suo; la risoluzione gli pareva buona, per il caso presente e per i casi futuri. Infatti, che cosa sperare da quel ministro, che era stato suo comandante in una memorabile crociera e che aveva mostrato in parecchie occasioni di non poterlo soffrire? Effetto di una ruggine antica, per una manovra fatta da lui, di suo capo, che il comandante non aveva ordinata, che anzi aveva biasimata. Un po’ troppo presto, per altro: lo scandaglio, la mattina dopo, aveva dimostrato a tutti che seguendo ciecamente gli ordini del comandante si sarebbe rimasti incagliati. Quattro palmi di sàgola avevano dato ragione all’inferiore; e il superiore se l’era legata al dito, quantunque l’inferiore si fosse studiato con ogni maggior cura di non lasciar trasparire il sentimento della propria superiorità. Una promozione, dopo quel giorno malaugurato, era venuta per tutt’e due, l’uno giungendo al grado di tenente di vascello, l’altro al grado di contrammiraglio. Due anni ancora, e il contrammiraglio diventava ministro. Il ministro si era slegato finalmente il dito, saltando nelle prime promozioni il tenente di vascello.
Lagnarsi? È presto detto. In che modo? Aspettare che cascasse il ministro; sì, fra due o tre anni, e intanto divorarsi l’affronto. No, niente aspettare; perciò aveva mandata la sua dimissione. Cosa amaramente spiacevole per lui, quanto edificante per tutti, la sua dimissione era stata accettata a volo. Brutto momento, vedersi così di punto in bianco fuori dell’uscio! Ma c’è «la buona compagnia che l’uom francheggia»; e questa, nei brutti momenti, consola.
Ahimè, non del tutto. A lui una pena sorda restava nel profondo dell’essere. Amava il mare; il bel mare, così pieno di misteri, così magnifico nella collera, così augusto nella calma, che pare abbia un’anima, e grande, meravigliosamente grande, grande almeno sei volte quella dell’umanità tutta quanta; il buon mare che mette in comunione tutte le creature viventi, assai più ed assai meglio che non facciano tante strade ferrate e tanti telegrafi. In questi