E in Dante, come chiusa è la porta di Dite, così chiusa doveva essere l'altra, quella dell'inferno totale. Non era questa, prima della discesa di Gesù, equivalente a quella? Dite non reggeva ancor lassù? il grande stuolo non era a quella porta men segreta? E aprivano, via via, a chi si presentava. E dunque la porta chiusa è simbolo di dannazione e di morte e di servitù e di peccato, e la porta aperta e lasciata senza serrami, sì che non può più chiudersi, è simbolo di redenzione e di battesimo e di salvazione e di libertà.
Pure anche qui distinguiamo. Per uno che beva ancora la luce, è segno di redenzione; per chi è corporalmente morto, è segno sì di redenzione, ma della redenzione che fu vana per lui. La porta è spalancata, ma su vi è la scritta di morte:
lasciate ogni speranza o voi ch'entrate!
E gli sciaurati corrono corrono dietro la rapida insegna che è la croce, smaniosi d'ogni altra sorte; sì della seconda morte che avrebbero, se passassero l'Acheronte; sì della seconda vita, che avrebbero se potessero uscire dalla porta. E la porta è spalancata, ed essi non possono attraversarla, e stridono disperatamente. Quel fioco lume che entra dalla porta aperta è il loro più grande tormento. Bene Virgilio annunzia a Dante quelle disperate strida, bene il Poeta le descrive con una forza che sarebbe strana per noi, se non pensassimo che nel vestibolo più che altrove doveva aver luogo la disperazione; avanti quella porta che invano è spalancata e invano fu rotta. Tutti i dannati potevano salvarsi; meno di tutti quelli del limbo, più di tutti questi del vestibolo. Che dovevano fare? Al male non si condussero. Il male non li tentò. Dunque? Oh! i rifiuti della vita e della morte! Non possono passar l'Acheronte, perchè sono ancor misticamente vivi; non possono attraversare la porta, perchè sono corporalmente morti.[195]
IV.
Avanti la porta Dante esita. Il Maestro, che s'è accorto che il discepolo è stato ripreso dalla viltà la quale già l'aveva preso al solo pensiero dell'alto passo, il Maestro, l'ombra del magnanimo, gli dice solennemente:[196]
ogni viltà convien che qui sia morta.
Sotto il senso più generale d'un'esortazione vigorosa nel primo momento dell'impresa e nel primo ingresso dell'oltremondo, vive un senso più particolare. Di vero, Virgilio non continua spiegando il qui ripetuto “Qui si convien lasciare ogni sospetto, ogni viltà convien che qui sia morta„, con la menzione di tutto l'inferno, sì con queste parole:[197]
Noi siam venuti al loco ov'io t'ho detto, che tu vedrai le genti dolorose, c'hanno perduto il ben dell'intelletto.
Ciò che Virgilio aveva detto, ecco, è questo:[198]
per loco eterno
ove udirai le disperate strida,
vedrai gli antichi spiriti dolenti,
che la seconda morte ciascun grida;
e questi dolenti che stridono disperatamente e invocano la seconda morte, la quale non possono avere, e che Dante designa a sua volta,[199]
color cui tu fai cotanto mesti,
sono gli sciaurati, uomini ed angeli, neutrali del vestibolo. E sono quindi una cosa, con costoro cotanto mesti e dolenti, anche “le genti dolorose„. E si dice di loro “c'hanno perduto il ben dell'intelletto„; non si dice generalmente di tutti i dannati. Perchè, a parer mio, di loro si può, se d'altri mai, di loro in modo tipico si può dire, ch'hanno perduto quel bene. In vero, qual è quel bene? È il bene che scevera gli uomini dai bruti; cui chi non ha o perde, non vive: secondo ciò che Dante afferma:[200] “... vivere è l'essere delli viventi; e perciocchè vivere è per molti modi, siccome nelle piante vegetare, negli animali vegetare e sentire e muovere, negli uomini vegetare, sentire, muovere e ragionare, ovvero intendere (alcuni testi hanno intelligere); e le cose si deono denominare dalla più nobile parte; manifesto è, che vivere negli animali è sentire, animali dico bruti, vivere nell'uomo è ragione usare.„[201] Or qui Dante ha nel pensiero appunto questo ragionamento conviviale, che lo conduceva a dir vile, anzi vilissimo, e bestia, e morto, chi non segue, non potendo essere “da sè guidato„, le vestigie degli altri. E qui Dante tocca di quelli che non usano affatto l'intelletto, quindi non si servono di quello “alcuno lumetto di ragione„ che ci vuole per o discernere da sè o imparar da altri a discernere le vie del cuore. Ed è naturale che a Dante, uscito allora allora dalla selva e già in cammino, rovinando, per tornarvi; Virgilio parlasse di quelli che dalla selva non uscirono mai; ed è naturalissimo che entrando nel vestibolo dei vili e non mai vivi, che è la stessa cosa, Virgilio parli di viltà, e dica:
Ogni viltà convien che qui sia morta;
che viltà è più propriamente, come Virgilio dichiara, quella[202]
la qual molte fiate l'uomo ingombra
sì che d'onrata impresa lo rivolve,
come falso veder bestia, quand'ombra.
Ora e Dante nella selva e gl'ignavi nella vita questo fecero continuamente, e in questo somigliarono a bestie ombrose, che vedevano ciò che non era e ciò che era non vedevano: onde nulla quelli mai operarono, e nulla avrebbe operato esso, se infine non avesse passato la selva e quetato un poco la paura del cuore, cioè l'irresolutezza dell'appetito che fugge e caccia. Ben altrimenti si condusse quell'Enea, che Dante dice di non essere: “Io non Enea...„. Quegli, esempio di nobiltà, cioè di non viltà,[203] per quello spronare dell'animo, “sostenne solo con Sibilla a entrare nello Inferno„. Ma Dante per le parole e per il lieto viso di Virgilio si conforta. La viltà muore. Egli entra nel vestibolo dove è la viltà assoluta. Il maestro gli aveva detto:[204]
non ragioniam di lor ma guarda e passa.
Questa è come la catarsi del suo errore nella selva. Egli guarda e passa, tra persone delle quali alcune riconosce e non nomina, alle quali sarebbe stato simile se nella selva fosse rimasto. E vede e conosce l'ombra d'uno che fece un rifiuto grande quale egli avrebbe fatto, se per i conforti del maestro non avesse cacciata dal cuore e non avesse uccisa, mortificata, la viltà.
Giunge, guardando e passando, all'Acheronte. Caron lo respinge, e prima sembra confonderlo con gli sciaurati del vestibolo che, essendo ancora misticamente vivi della loro cieca vita, egli non può prendere nella sua nave. Poi, vedendo che non si allontanava, che non si partiva, che non andava tra gli esclusi dalla seconda morte, vedendo forse in ciò un segno insolito di nobiltà (non viltà), comprende che la sua vita è d'altro genere. E gli dice:
Per altra via, per altri porti
verrai a piaggia, non qui: per passare,
più lieve legno convien che ti porti.
Quale sarebbe questo più lieve legno? Come mai a uno, che ha di quel d'Adamo, e perciò ha peso, assai grave per le navi fantastiche dell'oltremondo, e perciò fa sembrare carca di sè la nave piccoletta di Flegias, a uno vivente Caron assegnerebbe nave più lieve? E quale questa via e questi porti diversi dai consueti? Noi possiamo dire che in verità egli non approdò al medesimo porto, che gli altri imbarcati da Caron, e non tenne quindi la medesima via: il poeta ci avrebbe detto qualcosa dello sbarco, come ci ha parlato dell'imbarco. Or egli lo sbarco non vide, come vide l'imbarco. Ma il fatto è che meglio noi comprendiamo qui il senso mistico che il reale e poetico. L'altra via è quella che non è la morte, gli altri porti sono quelli che non sono la perdizione; e il poeta parla di più porti, perchè le sedi a cui vanno a finire quelli che Caron imbarca sono più d'uno; sono tanti quanti i cerchi. Caron ha compreso che Dante non viene a prendere posto tra i dannati; tanto è vero che Virgilio non altro gli soggiunge se non: “Vuolsi così„: così, come hai capito.
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