—Giudicando alla grossa, sì;—rispose il Passano, mentre con diligenza amorosa osservava il liquido topazio delle Cinque Terre attraverso la lucida parete del bicchiere.—Ma possono aver ragione i suoi nobili parenti, a desiderare che un tal uomo non si ritiri dal giuoco. Sapete bene; dove bastano undici, il dodicesimo aiuta.—
Don Garcìa rizzò l’orecchio a quelle parole dell’amico.
—C’è dunque da aiutare a qualche impresa?—diss’egli.
—No, ch’io sappia;—replicò il Passano.—Ma c’è una condizione di cose che parla abbastanza chiaro da sè. Noi del Gatto, o del Basilisco, anzi diciamo pure di tutti e due questi graziosi animali, siamo per Francia; e sta bene, tenuto conto delle buone ragioni che ci abbiamo: ma siccome tutto questo, messo in ispiccioli, significa avere un presidio straniero in città, non si può neanche sostenere alla faccia del popolo che sia la più bella cosa del mondo. D’altra parte, i popolari, cioè a dire i nostri signori d’origine popolana, chiamati altrimenti del portico di San Pietro, vorrebbero aver mani in pasta, allontanando dalla madia quei del portico di San Luca; e questi, capirete, spalleggiati come sono dal gatto e dal basilisco, antiche insegne dei Fieschi, non ci pensano neanche a ceder d’un passo. Si guardano dunque in cagnesco, e come possa andare a finire Dio solo lo sa. Speriamo, nondimeno; Dio misericordioso potrebbe appigliarsi al buon partito di accomodar la testa a tutti. Dei miracoli se ne son visti, in altri tempi: perchè non ne accadrebbe uno nel nostro? Parlo così,—soggiunse il giovanotto,—perchè conosco il padrone, chè non se ne fa nè di qua nè di là. Ma guai a parlar di pace in Violata!
—Gian Aloise è sempre il più forte?—entrò a dire don Garcìa.—E sempre bene coi francesi?
—E come!—rispose il Passano.—Non si muove foglia che Gian Aloise non voglia. Quasi si direbbe che in Genova sia lui il padrone, com’è il capitano generale di tutta la Riviera di Levante. Ci sono i francesi nel Castelletto. Ma quelli si possono magari considerare stipendiati, come se fossero svizzeri, o tedeschi; zuppa o pan molle.
—Sia contento, allora,—disse don Garcìa,—e lasci quieti noi in Gioiosa Guardia, dove si sta così bene.
—Felice mortale! L’avete trovata, la nicchia? E badate, ci verrei tanto volentieri ancor io.
—Con donna Higuamota, non è vero? Ma olà!—ripigliò don Garcìa, come per darsi sulla voce.—Non dimentichiamo che l’ha tenuta a battesimo la madre del padrone, e che bisogna dire donna Bianchina.
—Già,—disse ridendo il Passano,—quantunque sia bruna. Tien più di Caonabo che di Anacoana, la mia dolce metà. Fortuna che amo le brune!
—O perchè non l’avete condotta con voi, amico Passano?
—Che, vi pare? dovendo fare una visita di poche ore....—
Don Garcìa inarcò le ciglia, ma non aggiunse parola.
In quel mentre si faceva udire un gran rumore dalla scala vicina, donde qualcheduno scendeva a precipizio, saltando ad ogni tanto e tonfando, alla guisa dei ragazzi. E subito dopo si vide balzar dentro un adolescente, dai capegli biondi e dalla faccia birichina. Pareva, a vederlo, che il mondo fosse suo, o che lo credesse da vendere, e da poter comprare coi quattro soldi che a lui ballavano in tasca. Polidamante (era questo il suo nome) poteva dirsi l’imagine, il simbolo, il genio della Gioiosa Guardia, ove del resto era nato. Se gli altri ci avevano pochi fastidii, egli non ne aveva nessuno. Tutto di primo impeto, correva sempre, quando c’era da muoversi; quando poi doveva star fermo, si addormentava. Non faceva mai niente con misura; e forse per ciò era molto caro al padrone.
—Che c’è?—chiese don Garcìa.
—Presto, le acque;—gridò quell’altro, senza fermarsi a rispondere in tono.—Dove sono le acque?
—Nei fiumi;—disse il Passano;—e neanche ne han tutti.
—Ah, siete voi, messer Giovanni? Bene arrivato! Dicevo le acque acconce, le acque cedrate, i siroppi per la signora.—
I famigli, che non avevano bisogno di tutte quelle spiegazioni, avevano già levato da una credenza il vassoio con le bocce di cristallo, e si preparavano a seguire con quello il messaggero Polidamante.
—Quando si dice nascer vestiti!—esclamò don Garcìa, volgendosi al Passano.—I padroni hanno anticipata l’ora di uscire in giardino. Potete salire dietro a Polidamante, e presentarvi, e far le vostre ambasciate, senza interrompere i commentarii di Cesare.
—I commentarii.... Che dite voi, don Garcìa?
—Eh, sì, i commentarii di Cesare, come li chiama frate Alessandro.
—Sta bene, avevo inteso;—riprese il Passano.—Domandavo che diavolo è.
—Una storia, amico, una storia di laggiù, mi capite? Il capitano ci ha fatto l’onore di chiamarci nella caminata, per cinque sere alla fila, e ce ne ha letti già cinque capitoli. In quello scritto racconta tutto quello che s’è fatto alle Indie.
—Ah, bene! capisco, ora. Ci avrà molto da raccontare, perchè molto si è fatto. E parla di voi?
—No, non ci siamo ancora, a quel punto;—rispose don Garcìa, rannicchiandosi.—Penso, del resto, che quando saremo a quel punto, egli mi dovrà passare sotto silenzio. Del che non mi lagnerò,—soggiunse egli umilmente;—che anzi, dovrò sapergliene grado. Beati gli uomini di cui non avrà da occuparsi la storia.
—Bravo! siete filosofo?
—Alle mie ore, amico Passano.—
L’amico Passano strinse la destra di quell’altro Seneca; e vuotato il suo calice fino all’ultima goccia, che non era d’aceto, si avviò verso la scala.
—Va, bello mio, va, che non la conti giusta;—borbottò tra i denti il bravo don Garcìa, uscendo alla sua volta di là.—Questa visita di poche ore, a spron battuto, mi sa di chiamata a Genova lontano un miglio. C’è la mano di messer Filippino, qui sotto; scommetterei. Quello là non vuol dare nè lasciar pace a nessuno.—
Il giardino di Gioiosa Guardia, anzi i giardini, perchè erano quattro, bisognava andarli a cercare in alto, come gli orti pensili di Semiramide. Si stendevano essi sui bastioni della rocca, per tutta la lunghezza delle cortine, fiancheggiati e conterminati dalle torri, che, per conseguenza logica quanto architettonica, erano appunto quattro, senza contare il battifredo, gran torre più alta, dalla parte dell’ingresso, colla campana al sommo e con l’orologio nel mezzo. Forte arnese per guerre medievali, la Gioiosa Guardia non poteva più dirsi tale in un tempo che le artiglierie mobili e di grande gittata potevano batterla da parecchie eminenze circostanti. Ma essa non s’aspettava di queste noie, e il suo padrone, amico della pace, ne lasciava il carico ad altri luoghi fortificati della sua parentela, da Montobbio a Pontremoli. In uno di quei casi di necessità, che gli amici della pace come Bartolomeo Fieschi si dovessero ricordare d’essere stati uomini di guerra, la Gioiosa Guardia poteva essere ancora un bell’inciampo a soldatesche raccogliticce, non esperte o impazienti d’assedii; e il suo signore, poi, avrebbe amato sempre meglio far impeto in aperta campagna; che infine non era neanche troppo aperta, e i suoi duecento uomini, ben comandati, potevano valere per mille. Frattanto, sui pensieri di guerra avevano il sopravvento le arti della pace, e prima fra tutte l’arte dei giardini.
Madonna Bianchinetta, la santa madre del capitano Fiesco, ne aveva preso cura da giovane; ma poi, cresciuta negli anni, se n’era via via disamorata, piacendole assai più di passar le sue ore nella cappella del castello, dedicata a san Colombano; un gran santo, quello,