Non era intenzione dell'almirante di far sosta alle Canarie, come a nessun'altra isola o costa di quei paraggi. Ma bisognava chinar la testa al destino, e seguitare i consigli della prudenza. Il giorno appresso, non era più questione di prudenza, ma di assoluta necessità. La Pinta, di sicuro, era stata male raddobbata, e per il fasciame sconnesso incominciava a far acqua. La legatura del timone si era anche rallentata, e la caravella governava male da capo. La Santa Maria e la Nina dovettero diminuire la tela, per serrar meno vento, e andar di conserva con la povera zoppa. E l'almirante, non che risolversi di far sosta alle Canarie, pensò che gli sarebbe convenuto cercare laggiù un'altra caravella, per liberarsi da quella nave, che incominciava a parergli un vero castigo di Dio.
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Ma perchè andare alle Canarie? Quelle isole erano ancora molto lontane. Non era meglio ritornare indietro, coi due legni che ancora reggevano al mare, e sui quali si sarebbe potuto trasbordare tutta la gente e il carico della Pinta, perchè questa seguitasse come poteva, magari presa a rimorchio? Era questo il pensiero dei marinai, confortato dalla opinione dei piloti. Alcuni di essi, come Pedro Alonzo Nino e Sancio Ruiz della Nina, stimavano sicuramente di essere molto distanti dalle Canarie. Forse meno sincero, perchè più desideroso del ritorno, era Bartolomeo Roldan, altro pilota della Nina. Ma niente affatto sincero, e più caldo sostenitore della grande distanza, era Perez Matteo Hernèa, pilota della Santa Maria. Costui incominciava ben presto a far prova del suo mal animo contro il comandante supremo, che egli non si peritava di giudicare, sebbene ancor sotto voce, un ambizioso impostore.
Ma il comandante della Pinta, della nave zoppa, aveva manifestato egli stesso il proposito di appoggiare alle Canarie, e per conseguenza di proseguire il cammino fin là. Con Martino Alonzo Pinzon, marinaio esperto e ben veduto dall'equipaggio, non si poteva lottare; specie quando minacciava di ricorrere agli argomenti ad hominem. Più calmo, ma più sicuro nella sua nautica dottrina, Cristoforo Colombo aveva detto:—V'ingannate, nella vostra stima; le isole sono anzi vicinissime. Tra domani o doman l'altro, le avvisteremo di certo.—
Il fatto seguì com'egli aveva annunziato. Sull'alba del giorno nove, si scorgevano le vette della Gran Canaria. Disgraziatamente, ora per troppo vento, ora per troppo poco, non era possibile l'approdo. Si stette due giorni in attesa di una propizia occasione, ma invano; e l'almirante, non volendo perder [pg!6] tempo a bordeggiare in quelle acque, si lasciò addietro la Pinta, ordinando a Martino Alonzo Pinzon di approdare quando potesse, e di cercare un'altra nave, per dare il cambio alla sua. Egli intanto andava con le altre due caravelle alla Gomera, per il medesimo intento. E giunse alla Gomera nel pomeriggio del 12 agosto udendovi con sua grande consolazione che s'aspettava di giorno in giorno una buona nave, andata per l'appunto alla Gran Canaria.
—Aspettiamo dunque con fiducia;—aveva detto l'almirante.—Se la buona nave è a quell'ancoraggio, Martino Alonzo l'ha trovata, l'ha presa, e viene con essa a raggiungermi.—
Ma lo aspettò invano. E stanco di aspettare, partì il 23 per andare incontro al compagno. Giunse il 25 alla Gran Canaria. Martino Alonzo Pinzon non v'era giunto che il giorno prima, e stentatamente; udendo da quegli abitanti che la nave c'era stata, ma che da parecchi giorni ne era partita, nè si sapeva per dove.
Bisognava rinunziare ad ogni speranza di barattare la nave, e lì per lì provvedere invece a rimettere in sesto la Pinta. Martino Alonzo Pinzon mandò a terra i mastri d'ascia per cercare il legname adatto e tagliare alla svelta un altro timone. Frattanto, poichè la sua caravella faceva acqua, i marinai si mutarono in calafati, e si diedero a fabbricare con vecchi cavi disfatti le stoppe catramate, che con scalpelli e mazzuoli dovevano poi ficcare nei comenti del fasciame, nelle ossature, nei nodi del legname, intorno ai cavicchi, e dovunque bisognasse, ricoprendo poi ogni cosa di pece.
La Nina approfittò di tutto quel tempo per cambiar velatura. Le sue vele latine si mutarono in quadre, e alle antenne, per conseguenza, furono sostituiti [pg!7] i pennoni. Per tal guisa, di caravella che era, e somigliante ad uno sciabecco, si trasformò in una specie di brigantino a palo. Quanto alla velatura, s'intende; non già quanto alla alberatura. Le caravelle portavano bensì tre alberi, il trinchetto, l'albero di maestra e l'albero di mezzana, ma quest'ultimo era assai più avanzato sulla poppa e più corto che non sia nei brigantini a palo d'oggidì; d'onde la conseguenza che non fosse molto larga la vela, artimone o mezzana che vi piaccia chiamarla, nella sua forma triangolare e latina, oppure randa di poppa, nella sua forma quadra.
Quando la Nina spiegò al vento la sua velatura nuova, dovette affrontare i giudizi delle altre navi, che l'aspettavano per muovere di conserva con lei. Il marinaio è criticatore per eccellenza; figuratevi se poteva essere risparmiata la Nina, il giorno che si presentò in riga così trasformata. La critica alle sue vele fu come un sorriso, il primo, in mezzo a tanti giorni di nera malinconia.
—Sarà bella,—diceva uno,—ma mi pare un po' goffa.
—Già,—soggiungeva un altro,—come un contadino di Biscaglia, quando mette un abito nuovo.
—E guardate,—entrava a dire un terzo,—tra i pennoni e gli alberi, che stonatura di tinte!
—Si capisce; i pennoni son nuovi, e gli alberi son vecchi.
—Albero vecchio.... fa buon fuoco.
—E quelle trozze! dovrebbero stringere un po' meglio.
—Aspettate che bevano, e stringeranno, stringeranno anche troppo.—
Insomma, ognuno voleva dire la sua. E l'almirante, passeggiando gravemente sul ponte della [pg!8] Santa Maria, poteva, come suol dirsi, sentir suonare tutte le campane, ad una ad una, e magari tutte insieme.
Su tante, egli ne sentì una che lo colpì, facendolo voltare di soprassalto. Due marinai stavano appoggiati al capo di banda, un po' in disparte dai loro compagni, e ragionavano di cose vane, non tali da destare l'attenzione dell'almirante. Ma il tono è quello che fa la musica; e quei due cantavano in un tono che doveva far senso a messer Cristoforo Colombo. Parlavano, a farvela breve, in vernacolo genovese. Come mai due genovesi a bordo? Ed egli non ne sapeva nulla?
L'equipaggio delle tre caravelle non lo aveva scelto lui. Quella gente era stata presa per forza, nella maggior parte; e il resto era stato tirato dall'esempio dei fratelli Pinzon. A Palos, ad Huelva, a Moguer, erano tutti valenti marinai; si potevano prender tutti ad occhi chiusi. E un po' per una ragione, un po' per l'altra, l'almirante non aveva presieduto alla formazione della sua marinaresca. Quanto al nome di tutti, alla patria e alle altre particolarità di quella gente, erano cose che egli avrebbe conosciute via via, durante il viaggio, senza bisogno di leggere il registro, che era tenuto dal suo primo pilota.
Immaginate dunque la dolce commozione che messer Cristoforo Colombo provò in quel giorno e in quell'ora. La parlata della madre patria è sempre la più soave all'orecchio dell'uomo, quando egli si ritrova fuori paese. Egli accorre al suono conosciuto, come ad una festa dell'anima; ascolta giubilante, vorrebbe subito barattar parole anche lui, come se volesse provare a sè stesso che quell'idioma, che è senza dubbio il più bello del mondo, egli non lo ha dimenticato. E parlandolo, dopo tanti [pg!9] anni, in una regione lontana, egli sente in quell'idioma, in quel vernacolo natìo, un gusto, un sapore di novità, che gli è fonte di gioie inattese, rivelazione di arcane bellezze.
Ma per allora non era il caso di fermarsi a discorrere. La dignità del comando voleva che l'almirante tirasse di lungo; e il momento, poi, non era da chiacchiere. Le caravelle erano in riga, bisognava partire. La Santa Maria si mosse per la prima dall'ancoraggio della Gran Canaria, dirigendosi alla Gomera, dove aveva lasciato a terra una squadra d'uomini per far provvista di viveri. Era una domenica, il 2 di settembre, un mese dopo la partenza da Palos.
Per andare alla Gomera, si passava davanti a Teneriffa, che è l'isola centrale del gruppo delle Canarie. Il gran picco di Teneriffa era proprio allora in piena eruzione vulcanica; maraviglioso spettacolo, che per la maggior parte dei marinai di Cristoforo Colombo poteva dirsi