Per mala sorte, mentre il Vicerè era costretto a retrocedere dal confine orientale, anche quell'altra parte del suo esercito cui aveva affidato la difesa del redento Tirolo era costretta a ripiegare fino a Trento ed a Rovereto: l'insurrezione fomentata dal nemico tra quegli alpigiani e la defezione della Baviera favorivano il còmpito assegnato al feldzeugmeister Hiller. Molto probabilmente il piano dell'offensiva del Trentino, della cosiddetta «spedizione punitiva», concepito la scorsa primavera dallo stato maggiore austriaco, fu ispirato da quello che un secolo addietro il barone Hiller effettuò: allora come oggi i nostri nemici pensarono di compiere una gran mossa avvolgente dall'Alto Adige per la Valsugana, con lo scopo di sboccare nella pianura veneta e di cogliere alle spalle le truppe operanti sull'Isonzo; tranne che, mentre oggi le ondate dell'assalto si sono infrante contro i petti dei nostri soldati, allora i Franco-Italiani furono costretti a una serie di continue ritirate, da Primolano, da Cismone, da Folgaria, da Montebaldo, da Ala, dinanzi alle colonne avversarie discendenti da Borgo di Valsugana e da Feltre e collegate da corpi volanti per i Sette Comuni, la Vallarsa e la Valfredda. A Bassano Eugenio compiva uno sforzo e conseguiva un'effimera vittoria, costringendo i fanti dell'Eckardt a retrocedere su Cismone e quelli del Brettscheider su Gallio, Asiago e Levico; ma poi il Vicerè doveva a sua volta abbandonare la linea del Piave e della Brenta ed avviarsi a Vicenza ed a Verona, talchè Bassano era rioccupata dal nemico, che procedeva da Castelgomberto verso Vicenza, dove le divisioni scese dal Trentino dovevano congiungersi con quelle avanzanti dall'Isonzo e concorrere così all'investimento di Venezia. Ancora una volta il Vicerè tentava un ritorno offensivo per la Valle Lagarina verso Rovereto e Trento; ma, espugnata Caldiero, non poteva mantenervisi per insufficienza di forze e tornava a ridursi a Verona.
II.
Una delle principali cagioni del cattivo esito della campagna era il voltafaccia di Gioacchino Murat. L'ambizioso sergente di cavalleria sospinto sul trono di Napoli dall'inaudita fortuna del grande cognato, temeva d'esser travolto nell'imminente disastro, e volendo assicurarsi sul capo la malferma corona, bramando anzi d'ingrandire il suo regno e di ridurre sotto il suo scettro tutte le genti italiane, cercava alleati tra i nemici di Napoleone, si offriva invano agli Inglesi, si stringeva da ultimo all'Austria, affidandosi «senza riserva alla fiducia che deve ispirare la lealtà dei suoi principi, segnatamente quella del sovrano che oggi la governa». Singolare speranza davvero, cotesta, di divenir sovrano dell'Italia unita mediante la «lealtà» di quegli Absburgo che a null'altro aspiravano nè lavoravano, con tutte le arti e tutte le armi, fuorchè a recuperare Venezia e Milano, l'Istria e la Dalmazia, il dominio dell'Adriatico e l'egemonia sulla penisola!
Il Weil, pur tessendo una finissima analisi delle esitanze, delle tergiversazioni, delle contraddizioni di Gioacchino, afferma che, senza l'opposizione implacabile di lord Guglielmo Bentinck, messo britannico presso i Borboni di Sicilia, l'improvvisato Re di Napoli sarebbe riuscito nell'impresa di liberare e ricomporre l'Italia. È lecito dubitare di questa, come di qualche altra affermazione del diligentissimo storico. Quando, per esempio, egli dà torto a Napoleone per avere rifiutato, sul principio del 1813, le «accettabili e onorevoli» condizioni di pace offertegli dal Metternich, non tiene conto del grande equivoco, scoperto e documentato da Alberto Sorel, che si celava nelle proposte del cancelliere austriaco e di tutta la Coalizione. Quanto all'Italia, affinchè Gioacchino Murat riuscisse allora a resuscitarla, occorrevano due cose: che la coscienza dei suoi cittadini fosse formata, e che i potentati europei consentissero a lasciarla rivivere. Ma se la grande idea era stata concepita da alcuni generosi, essa non era ancora divenuta, come occorreva, sentimento e passione comune; e se nei consigli dell'Europa si cominciava a considerare il problema italiano, non gli si voleva ancora dare, pure annunziandola e promettendola, la sola soluzione che comportava.
L'Inghilterra lasciò sperare che avrebbe dato mano a liberare la Penisola dalle influenze rivali dell'Austria e della Francia. Il Bentinck, acerrimo avversario del Re Gioacchino, ne ostacolava con ogni possa i piani, ma scriveva a lord Castlereagh, ministro inglese degli affari esteri, che se la Gran Bretagna avesse estesa la sua protezione ed assistenza agli Italiani, avrebbe provocato tra loro «un gran movimento nazionale, simile a quello che ha sollevato la Spagna e la Germania: un gran movimento in favore dell'indipendenza; e quel gran popolo, invece che lo strumento d'un tiranno militare o di qualche altro individuo, invece che lo schiavo dolente di alcuni miserabili principotti, sarebbe divenuto una formidabile barriera eretta tanto contro la Francia quanto contro l'Austria. La pace e la felicità del mondo avrebbero ottenuto un possente aiuto di più. Temo molto, però, che l'ora sia trascorsa....» L'ora, per dire esattamente, doveva ancora giungere: tant'è vero, che lo stesso Bentinck non si faceva scrupolo di difendere, nello stesso tempo che proferiva così belle parole, gl'«imprescrittibili» diritti borbonici.... Impegnata nel duello a morte contro la Francia di Napoleone, l'Inghilterra aveva troppo bisogno di ottenere l'aiuto dell'Austria, e per ottenerlo rinunziava al magnifico disegno di fare dell'Italia unita un pegno dell'equilibrio europeo ed un freno alle contrastanti ambizioni austriache e francesi, contribuendo invece a consegnarne gran parte agli Absburgo: mentre il Vicerè manovrava tra l'Adige e l'Isonzo, difendendosi del suo meglio sulle due frontiere, i vascelli britannici comandati dall'ammiraglio Freemantle cooperavano dal mare con le truppe del maresciallo austriaco Nugent per ridare a Francesco II Fiume, Pola, Capo d'Istria, Rovigno; favorivano le operazioni del Tomasich e del Danese in Dalmazia; prendevano parte all'assedio ed all'espugnazione di Trieste, di Zara, di Ragusa; e se pure aiutavano i Montenegrini nell'impresa di Cattaro, lasciavano poi che le Bocche fossero riprese ed annesse dall'Austria e tenevano per conto di lei, consegnandogliele alla pace, Lissa, Lesina, tutte le isole adriatiche.
La Francia della Repubblica e dell'Impero potè credere d'aver fatto molto per l'Italia, e qualche cosa realmente fece; ma la diffidenza che doveva trattenere allora, e per lungo tempo ancora, i reggitori di quella nazione, era espressa limpidamente nel rapporto del Caulaincourt, ministro degli esteri di Napoleone, al suo padrone: «L'Italia dichiarata indipendente avrebbe senza dubbio un più diretto interesse a difendersi. Era formata di popoli divisi: Vostra Maestà ne ha fatta una nazione, e le forze che quel paese ha acquistate sotto l'amministrazione della Maestà Vostra hanno accresciuto la sua fiducia in sè stesso. La maggior parte degl'Italiani desiderano ottenere l'esistenza politica. Il Re di Napoli se n'è accorto. Egli si servirà d'ogni mezzo per dare sfogo a questa tendenza e riunire, potendo, le sparse membra d'Italia. Ma se Vostra Maestà consentirà all'indipendenza di quel paese, ora oppure al momento della pace, sarà anche nel vostro interesse formarne una sola monarchia? L'Italia ha 16 milioni d'abitanti e tutti i vantaggi d'un suolo fertile e d'una felice situazione marittima e commerciale. Un buon governo potrà, in una sola generazione, aumentare di metà quella popolazione. I suoi arsenali, il suo commercio, la sua marina, si sviluppano a poco a poco. Essa porta via alla Francia il commercio del Levante e la preponderanza nel Mediterraneo; e, forte della sua posizione fra una catena di montagne e i due mari, diventa la prima potenza del Mezzogiorno....»
Alla pregiudiziale della rivalità nazionale si aggiungeva l'ostacolo della rivalità delle persone. Chi dei due, tra Eugenio di Beauharnais, Vicerè del regno settentrionale, e Gioacchino Murat, Re del regno napolitano, avrebbe ottenuto lo scettro dell'Italia una? L'invidia contro il Beauharnais, la paura di vedersi soppiantato da lui, la certezza che Napoleone lo preferisse, facevano titubare il Murat, rendevano doppio e perfido quel soldato nativamente franco e leale. L'uno accorrendo da Napoli verso i campi lombardi, occupando Roma, la Toscana, le Marche; l'altro battagliando tra l'Adige e l'Isonzo, parlavano agl'Italiani di libertà, d'unità, d'indipendenza; ma Eugenio confessava candidamente di non avere sposato la causa italiana se non «come leva per ottenere nuovi sacrifizii» dai suoi sudditi; e Murat presumeva di fare