Povera Camilla! anche il nato dalle tue viscere andò nel carnaio degli innocenti dopo aver esalato il respiro sotto il coltello degli sgherri dello stesso Procopio, di quel Gianni che in questo momento s'aggira per sedurre e perdere la perla di Trastevere, la bellissima Clelia.
Nata contadina l'infelice Camilla ebbe come l'Italia il dono funesto della bellezza. Silvio, nelle sue caccie verso le paludi pontine, soleva fermarsi, passando, in casa del buon Marcello, padre di Camilla, a poca distanza di Roma. E s'era colà innamorato della fanciulla. Riamato da Camilla e chiestala al padre, l'ottenne e si fidanzarono. Era una bella coppia quella dell'avvenente e robusto cacciatore colla gentile e bella contadina ed entrambi assaporavano anticipatamente con l'anima le delizie della loro unione.
Ma troppo bella era Camilla e troppo innocente in quella metropoli della corruzione. I bracchi dell'Eminenza avean fiutato la colomba e quando viene fiutata e tracciata la selvaggina da costoro, è ben difficile non cada.
In una escursione di caccia, il povero Silvio aveva presa la febbre, sì comune in quelle paludi, e questo malanno fu cagione che il matrimonio venisse ritardato e più facile si rendesse il disegno degli avvoltoi su quella preda gentile.
Raramente ma pur qualche volta Camilla soleva recarsi a portar delle frutta in piazza Navona e lì una fruttaiola comprata da Gianni tese tante lusinghe e reti all'innocente contadina che la fece finalmente cadere nella trappola.
La caduta non rimase a lungo occulta. Il ventre ingrossando minacciò svelare l'arcano, onde temendo del padre e dell'amante, la povera Camilla si lasciò persuadere ad occupare una stanza nel palazzo Corsini ove a bell'agio il cardinale poteva continuare la tresca coll'infelice.
Il parto riuscì un bambino e quel bambino fu destinato come tanti altri al carnaio.
Camilla ne impazzì e grazie alla generosa pietà del porporato, il quale sognava nuovi amori, fu rinchiusa in un manicomio. Una notte però, sia colla violenza, sia deludendo la vigilanza dei custodi, la pazzarella riuscì a guadagnare l'aria libera. Uscì, vagò, vagò a lungo in quella notte tempestosa, senza direzione preconcetta, finché per caso avvicinatasi al Colosseo le parve intravvedervi una luce, avanzossi. In quel momento il precursore della folgore avea rischiarato ogni cosa e fra le altre le sentinelle che vigilavano all'ingresso dell'anfiteatro.
L'istinto, un vago presentimento la spinsero verso quegl'individui che almeno non avevano l'aria di preti. Costoro vollero arrestarla, ma Camilla avea in quella notte una forza sovrumana. Si svincolò, salì e giunta al loggione cadde spossata in mezzo ai trecento.
Povera Camilla! E Silvio che l'aveva riconosciuta, raccontava ai compagni la storia dell'infelice. "È tempo,—ripigliava Attilio,—di purgare la nostra città da questo immondo pretume" ed un lampo di sospetto per la sua Clelia, forse in procinto di cadere fra gli artigli delle belve istesse, balenatogli alla mente, il suo pugnale venne fuori come una striscia di fuoco. Quindi brandendo il ferro, Attilio sclamò:
"Maledizione a quell'indegno Romano che non sente l'umiliazione della sua patria e che non è pronto a bagnare il suo ferro nel sangue de' tiranni che la deturpano facendone una cloaca".
"Maledizione! Maledizione!" rimbombò per più minuti l'ampia volta delle ruine, ed il tintinnio de' ferri cozzanti, faceva riscontro al clamore delle voci; terribile musica all'indirizzo de' corrotti e scellerati padroni di Roma.
"Silvio!—ripigliava Attilio—questa fanciulla più infelice che colpevole, abbisogna di protezione e tu generoso non gliela niegherai. Vanne e l'accompagna, ed il giorno della riscossa, noi siamo certi, non mancherai al tuo posto".
E Silvio era generoso davvero e amava ancora la sua disgraziata Camilla. Costei alla vista dell'amante parve quasi per incanto calmata dal morboso furore, e tacita, rannicchiata era diventata docile come un agnello.
Silvio le si accostò, sollevolla, l'avvolse nel proprio mantello e dolcemente tenendola per mano, la condusse fuori del Colosseo verso l'abitazione di Marcello.
"Per il quindici alle Terme di Caracolla, e pronti a menar le mani!…".
"Pronti! Pronti!" ripeterono i trecento. Ed in pochi minuti il deserto delle rovine avea ripreso la sua tetra spaventosa solitudine.
CAPITOLO VI
L'ARRESTO
Cencio, come fra la gioventù Romana suole a parecchi accadere, era disceso più per colpa dei genitori che propria, nell'abbiezione in cui l'abbiamo trovato.
Onesto carpentiere, il padre avea sposata una di quelle tante donne uscita dal connubio dell'alto clero con femmina Romana(11).
(11) Come può essere diversamente con un clero ricco ed una popolazione povera?
Costei non ignorava la non mediocre sua nascita e vanarella sognava poter innalzare il proprio figlio al disopra dell'umile condizione del padre suo. Essa faceva gran conto sulla protezione dell'Eminente genitore e le pareva che questi dovesse proprio occuparsi del suo nuovo nato. Stolta! che non sapeva come i godimenti mondani sieno la sola norma dei porporati predicatori della vita eterna e che, una volta satolli, costoro distruggono o abbandonano la prole.
E Cencio destinato dalla madre allucinata a grandi cose non curò imparare l'arte del padre, si diede dell'aria e finì, ostentando una condizione che non era la sua, a precipitarsi nel vizio e vendersi finalmente al primo ministro dei piaceri di un'Eminenza.
Dalla stanza dove lo aveva collocato Gianni egli non perdeva Manlio di vista; ed una sera mentre l'artista stava intento al lavoro piomba Cencio nel suo studio e con voce commossa, si fa così a supplicarlo: "per l'amore di Dio! voglia permettermi di rimanere qui un istante, sono inseguito dalla polizia… mi cercano per imprigionarmi. L'assicuro,—continuava l'impostore,—che non ho altro delitto, tranne quello d'esser liberale; nel calore di una disputa ho detto francamente che la caduta della repubblica era stato un assassinio. Per tutto questo mi vogliono arrestare!".
Così terminando il suo discorso Cencio per dare alle sue parole maggior colore di verità, fingeva di cercare dietro i marmi, ond'era ripieno lo studio, un nascondiglio che lo coprisse dalla vista della strada.
"I tempi corrono difficili", pensò Manlio fra sé, "c'è poco da fidarsi del prossimo; ma come si fa a cacciar di casa un compromesso politico? come si fa a mandarlo a crescere il numero degli infelici che gemono nelle prigioni dei preti?".
"Poi,—pensava Manlio sbirciando il nuovo venuto,—il giovane mi sembra di buon aspetto. Giunta che sia la notte, potrà facilmente trovare uno scampo".
E l'uomo onesto condusse lui stesso Cencio nella recondita parte dello studio, non sospettando di certo ch'egli albergava un traditore.
Non passò molto che una frotta di sgherri sfilando lunghesso la via si fermava davanti lo studio e vi penetrava chiedendo al proprietario il permesso di farvi una visita domiciliare per ordine superiore.
Non è difficile trovare il nascondiglio di uno che vuol essere scoperto. Poi il capo degli sgherri già d'intelligenza con Cencio lo avea da lontano veduto entrare ed era certo di non dover frugare invano.
Povero Manlio! poco sospettoso, come lo è generalmente la gente onesta, cercava di persuadere il briccone che nulla o nessuno si trovava nel suo studio che potesse dar sospetto alla polizia e procurava frattanto di guidare i cercatori in parti diverse da quella del nascondiglio di Cencio.
Ma il malandrino per abbreviare l'indagine che lo annoiava tirò per le falde dell'abito il capo-birro, mentre gli passava daccanto e questo con un piglio vittorioso afferrando il complice per il collo:
"Oh! Oh! voi renderete conto al Governo di Sua Santità del ricovero dati ai nemici dello Stato" disse, pavoneggiandosi il galeotto. E aggiunse "seguirete immediatamente