—Carbonaro, tu, Giuseppe?
—A quei tempi, sì.
—E in casa di mio padre?
—Ho sempre fatto il mio dovere, signor conte.
—Lo so, e non parlavo per questo;—disse Gino.—Ti esprimevo la mia meraviglia e nient'altro. Chi lo avrebbe mai immaginato che ci fosse un carbonaro, in casa Malatesti!… E nel Quarantotto, poi, come hai fatto a tenerti in corpo il tuo segreto?
—Amavo la casa, illustrissimo; amavo i figli del mio padrone, che erano cresciuti così belli e fiorenti sotto i miei occhi. Ma anche tenendomi il segreto in corpo, come Ella dice, ho fatto quanto era in me, per servizio della buona causa. Fu bene che avessi nascoste con tanta cura le mie opinioni, perchè, quando venne la restaurazione, nessuno dubitava del vecchio servitore di casa Malatesti, ed ho potuto rendere qualche grosso servizio ai patrioti.
—Bravo Giuseppe! Tu mi parli con una confidenza!
—Signor conte, Ella è dei nostri;—rispose Giuseppe.—Non la mandano in esilio, per questo?
—È vero;—disse Gino, che a quella parola «esilio» si sentiva crescere di qualche cubito nella propria estimazione.—Tu dunque sei per me l'inviato della provvidenza. E mi porterai il biglietto. Ma se ti frugano, laggiù?
—Se mi frugano, non troveranno un bel nulla. Ci son tanti modi di nascondere un pezzettino di carta! Lasci fare a me, signor conte; e nella rivolta della giacca, o nella fodera delle maniche….
—Bene, bene!—interruppe Gino.—Ne parleremo a Paullo. L'essenziale è di far sapere ciò che mi è occorso alla marchesa Polissena.—
L'idea di poter mandare un biglietto alla bella Baldovini calmò gli spiriti esacerbati del conte Gino, il quale finì con pigliar sonno. Quando si svegliò, la carrozza entrava a Paullo.
Il servitore avrebbe potuto accompagnarlo fino a Pievepèlago ed anche fino a Fiumalbo, dove, per andare a Querciola, sarebbe bisognato abbandonare la strada maestra. Ma il conte Gino preferì che Giuseppe ritornasse a Modena, tanto gli premeva di mandar sue notizie alla marchesa Polissena. E là, nell'osteria di Paullo, sopra un foglietto di carta, strappato dal suo taccuino, scrisse pochi versi a punta di matita. Avrebbe potuto scrivere una lettera; ma sarebbe riescita troppo voluminosa, e il vecchio carbonaro non avrebbe saputo dove nasconderla, mentre un bigliettino, convenientemente arrotolato, poteva celarsi da per tutto, anche in una cucitura ribattuta degli abiti.
Il biglietto del conte Gino alla marchesa Polissena diceva brevemente così:
«Saprete il caso che mi è toccato. Mi mandano a confine in Querciola, alle falde del Cimone, fuor del consorzio dei viventi… peggio ancora, lontano da Voi. Ne perderò la ragione; non mi parrà di vivere, fino a tanto non riceverò una vostra lettera. Il portatore di questo foglio mi è affezionato, e in qualunque modo mi farà avere i vostri caratteri. Addio! Mi si spezza il cuore, nel dover scrivere questa triste parola. Speriamo di mutarla in un arrivederci, e presto! Vi amo.»
Suggellò il biglietto, dopo averlo piegato più stretto che potè, e lo consegnò al fido Giuseppe.
—E dimmi,—gli soggiunse,—potrai farmi avere ad ogni modo la risposta?
—Non dubiti, illustrissimo; se una risposta ci sarà, gliela manderò certamente.
—Troverai persona fidata e sicura?
—Troverò tutto; Ella non si dia pensiero di ciò.
—Ad ogni modo, mi scriverai anche tu?
—Sì, illustrissimo; purchè Ella non rida della mia mano di scritto e dei miei errori d'italiano.
—Va là!—disse Gino.—Tu pensi da buon italiano, e questo è l'essenziale.—
Dopo di che, il giovanotto abbracciò il servitore e s'incamminò per la via dell'esilio. Erano le cinque dopo il meriggio, quando egli giunse a Fiumalbo, e salutò la petrosa balza del Cimone, tinta di rosso dai raggi obliqui del sole, che andava a nascondersi dietro l'Alpe di San Pellegrino.
Capitolo II.
I re della montagna.
Il Monte Cimone, alle cui falde era confinato il conte Gino Malatesti, è la più alta vetta dell'Appennino centrale. Duemila centocinquantasei metri sul livello del mare non sono ancora l'altezza del Monte Bianco; eppure il Cimone è debitore a questa sua elevatezza metrica di esser chiamato il Monte Bianco degli Appennini; modesto e generoso Monte Bianco, che per uno o due mesi dell'anno si lascia togliere dalla calva cervice il suo berretto di neve.
Alpestre, poco agevole ai piedini d'una bella signora delle nostre città, è il fianco del vecchio Cimone; ma la sua salita non offre difficoltà all'alpinista che all'ultimo passo, quando occorre, per guadagnarne la vetta, inerpicarsi sul petroso cono formato dalla emersione di alcuni strati del macigno appenninico. Ho detto il petroso cono, e infatti il Cimone presenta da lungi la forma di un cono, rozzamente tagliato, con la vetta spuntata in un pianoro, che ha forse cento metri di giro. A greco il balzo è più scosceso che dalle altre parti, e al piè della roccia, dove incomincia a distendersi il Pian Cavallaro, sgorga la Beccadella, una ricca fonte che basterebbe da sola a far girare la ruota d'un mulino. E quella fonte non è la sola, nè la più alta del monte. Ce n'è qualche altra più in su, verso levante, dalla parte del Cimoncino, con grande meraviglia dei signori naturalisti, a cui, più della salita, riesce arduo di spiegare una così alta origine di copiose sorgenti.
Invito i miei lettori ad una ascesa che non sarà senza compensi. Bolognesi e Modenesi non si terrebbero per alpinisti, se non fossero andati almeno una volta lassù. Le limpide mattinate son rare, pur troppo; ma quando il vecchio Cimone non ha il suo cappello di nuvole, quando sul piano, dintorno a lui, si diradano le nebbie, la veduta è stupenda, dall'Adriatico al Tirreno, dalle Alpi tirolesi, svizzere e francesi, fino alle Maremme e alle isole dell'Arcipelago toscano.
Mentre noi abbiam fatta l'ascensione del monte, il nostro viaggiatore è smontato alle prime case di Fiumalbo. Di là, per andare a Querciola, il conte Gino doveva lasciare la strada maestra e piegare a sinistra, ma per una via meno agevole e con altri mezzi di trasporto. Perciò, consigliato dal vetturino, era disceso davanti alla porta d'un molino, dove una frasca indicava che il mugnaio faceva a ore avanzate anche l'oste, e dove molto probabilmente il nostro Gino avrebbe anche potuto trovare una cavalcatura e una guida per andare a Querciola. Smontato, adunque, e accolto con tranquilla urbanità dal mugnaio, chiese tutto ciò che gli bisognava, incominciando dal desinare.
L'oste mugnaio nuotava nell'abbondanza; ma non aveva lì per lì nulla di pronto. Se il viaggiatore poteva aspettare, egli sarebbe andato a cercare una gallina sul prato, dietro alla casa, e la sua donna non avrebbe indugiato troppo a fargli un brodo conveniente. Ma il conte Gino sentiva gli stimoli della fame, e di una fame da viaggiatore che ha ventisei anni. In pari tempo, sentiva dalla cucina un grato odore di lardo. Il mugnaio cuoceva la minestra per la famiglia. Orbene, e non si poteva mangiar di quella, senza aspettare il brodo di là da venire? Se c'erano delle galline, sicuramente non mancavano le uova. Egli dunque avrebbe sorbito un paio d'uova calde, e magari due paia. Un pezzetto di cacio sarebbe bastato per finire il suo pranzo, che a quell'ora, con quell'aria, e dopo tante ore di viaggio, si poteva chiamar luculliano.
—Se si contenta Lei, facciamo pure così;—disse il mugnaio.—Teodemira, una tovaglia di bucato e una posata al signore. Badi, sono di ottone, le posate.
—Tanto meglio;—rispose Gino.—Sembreranno d'oro.—
La minestra fumante venne in tavola, e il nostro eroe assaggiò la minestra. Era buona, e sarebbe anche stata migliore, se dalla cappa del camino non fosse caduto un po' di fuliggine entro la pentola scoperchiata. Non crediate che il conte Gino la respingesse per così piccolo guaio. L'elegante giovanotto, lo stomaco delicato, che si era già adattato benissimo al condimento montanaro del lardo, si contentò di ritirare con la punta del cucchiaio i grumi di fuliggine galleggianti sulla liquida superficie. Che cos'è infine la fuliggine? Fumo di vivande, condensato lungo le pareti di un camino.