Se un pari numero di soldati avesse per ambedue le parti combattuto anche in séguito, e solo fosse stata contesa di valore, la prodezza italiana avrebbe certamente prevalso; ma nel successivo anno, centomila Tedeschi scesi dall'Alpi in soccorso dello Imperatore, lo riposero in grado di scorrere il Milanese. Orribile fu il guasto che cagionava; a quanti poteva far prigionieri le mani recideva; finalmente dopo infinite crudeltà tornava ad assediare Milano. Di lì a poco le provvisioni, sia che non se ne potessero, o non se ne volessero raccogliere, mancarono in questa città. Chiesero i Milanesi di venire ai patti; rispondeva Federigo, non volerli ricevere che a discrezione. I nobili si disponevano piuttosto a morire; la plebe si ammotinò, e li costrinse a cedere. Qui comincia la pietosa rovina di Milano, di cui la descrizione volentieri esporremmo, se molte gravissime cose non ci rimanessero a raccontare. Fu il diroccamento di Milano operato da mani italiane; nè più crudelmente avrebbero fatto gli stessi nemici. Questa era la carità della patria nei nostri padri! Nè ciò dico per dimostrare che noi siamo migliori: ma essi non furono meno scellerati di noi:—iniqui tutti! Ormai il governo di Federigo era divenuto increscioso alla più parte delle città lombarde; nessuna poteva sperare di resistere sola: unite, sarebbe stata cosa da tentarsi, e la tentarono. Prima Verona ne fece proposta: Padova. Vicenza, Treviso, acconsentirono seconde; poco dopo Venezia. Federigo, ch'era tornato in Lamagna a cagione di una sommossa, scende nuovamente in Italia, ma adesso per Valle Camonica onde evitare i Veronesi. Seguiva un congresso nel Monastero di Santo Jacopo in Pontida, tra Milano e Bergamo, dove gli abitanti della Marca di Verona convengono con Mantovani, Cremonesi, Bresciani, Bergamaschi, Ferraresi, e Milanesi, e giurano di non posare le armi finchè non abbiano i perduti diritti ricuperato. Federigo evitando questa improvvisa tempesta va a Roma, in parte la incendia, poi muove per Napoli. La peste gli distrugge l'esercito; a guisa di fuggiasco passa per Lucca, e s'incammina a Pontremoli, di cui gli abitatori gli si oppongono, e minacciano arrestarlo: sovvenuto dal Marchese Malaspina giunge a salvarsi in Lamagna. La Lega, divenuta di giorno in giorno più formidabile, fabbrica tra il contado di Pavia e quello del Conte di Monforte, nel confluente del Tanaro e della Bormida, sopra un terreno limaccioso e arrendevole, una città che in onore di Alessandro Pontefice chiamano Alessandria. Federigo oltremodo sdegnoso per questi avvenimenti, non potendo venire in persona, mandò per reprimere la ribellione il suo Vicario Cristiano Arcivescovo di Magonza: questi dopo alcuni fatti, che si vorrebbero raccontare se mostrassero almeno quella specie di coraggio che mostra il ladrone su la pubblica via, stringeva d'assedio Ancona. I Veneziani, separatisi dalla Lega Lombarda, si uniscono a Cristiano, e l'assaltano dal lato del mare. Gli Anconitani adesso si chiariscono veri eredi delle glorie passate, e degni figli di sangue latino: assaliti, tennero fermo; assalitori, respinsero. In una sortita ruppero il nemico con sì fatto impeto, che, fuggendo alla dirotta, lasciò in potere loro una torre: era questa macchina, quantunque di legno, fortissima, e tutta piena di armati, che facevano sembianza di volerla difendere fino all'ultimo sangue. Ognuno dubitava; quel pericolo certo atterriva tutti; la più parte diceva lasciarla stare. Stumara, valorosa gentildonna, vergognando della viltà loro, senza mettere tempo tramezzo, preso un tizzone, si scaglia a tutta corsa verso la torre: vi giunge, vi appicca il fuoco, nè prima si diparte, che, suscitato un altissimo incendio, conosce, di lì a poco sarà ridotta in cenere. Tanto valore fu per essere indarno, a cagione del difetto di vettovaglie: mancate le cose convenienti a cibarsi, mangiarono cuoio, schifosi animali, e sozzure: finalmente finirono anche queste. I buoni, che sono sempre i pochi, dimessa la faccia aspettano l'ultimo momento; i tristi, tenaci della vita quanto più meritano la morte, si sollevano, schiamazzano, e testa a cui si oppone: di súbito sorge un vecchio cieco, che, ringraziando il cielo per averlo privato della luce, onde non vedere questo giorno di avvilimento, e d'infamia, rimprovera chi parla di resa, li dispera del perdono nemico, dimostra loro potersi salvare la città; resistessero: a questo non avergli riserbati il Signore, conforto dei miseri, riparatore della sciagura; in lui confidassero, in lui che infrange i denti al lione,¹ e toglie il veleno al serpente. La plebe taceva; i più prudenti prevalendosi del tempo ragunano quanto più possono danaro, ne caricano una barca, che, guidata da gente esperta ed ardita, passa a salvamento per le galere veneziane, giunge a Guglielmo Marchesella, capo dei Guelfi di Ferrara, e lo sollecita di affrettarsi al soccorso. Intanto la fame diventava incomportabile in Ancona. Usciva una nobile donna dalla casa di certa vicina, dove l'aveva condotta il bisogno a ricercare un po' di pane per sostentarsi, e nudrire col latte un bambinello che si recava in braccio,—e non lo aveva trovato;—egli era rigoglioso e bello; stava assopito col capo mollemente appoggiato alla spalla della madre, che con pietà lo sogguardava. Si sveglierà quell'innocente, nè troverà nel suo seno alimento che valga a nudrirlo!—I passi della madre sono tardi e mal sicuri; all'improvviso inciampa in qualche cosa, che le si pone tra i piedi:… era un soldato che giaceva sfinito dalla fame; ella lo scuote, e gli dice: «Da molti giorni io mangio cuoio bollito, e il latte è presso a mancare al mio fantolino; àlzati nonpertanto, e se nelle mie poppe trovi di che sollevarti, confortati per la difesa della patria.» Innalza i pesanti occhi il soldato, vede la gentildonna, la vergogna gli riconduce il vermiglio sul volto, e sostiene quel corpo estenuato; sorge, si lancia contro i nemici, alquanti ne uccide, e cade trafitto sul campo.
¹ Flante Deo… dentes catulorum leonum contriti sunt. (Job. 4.)
Guglielmo Marchesella, co' danari di Ancona ragunate genti e vettovaglie, arriva a Falcognara, quattro miglia distante dalla città assediata. Si ferma, e sopraggiunta la notte, ordina ai soldati sospendano uno o più lumi alle lance, e si fa oltre gridando; gli Anconitani rispondono: Cristiano atterrito fugge su le montagne picene, poi pel Ducato di Spoleti. I Veneziani a lor posta si ritirano. Ancona è liberata.
Federigo nell'ottobre del 1174, abbandonata Lamagna, per la parte del monte Cenisio raggiunge il suo Vicario Cristiano; in passando arde Susa, occupa Asti, e viene ad assediare Alessandria. La difesa di questa città meriterebbe descrizione ben lunga: e' fu un fatto di arme da celebrarsi quanto qualunque altro antico, o moderno; perchè, a dire vero, sebbene gl'Italiani di que' tempi apparissero scellerati, pure era loro più facile mostrarsi magnanimi, che a quei di oggi mostrarsi non vili. Alessandria, difesa da un argine di terra male assodata, ributtando l'Imperatore, chiarì nuovamente che il petto di cittadini disposti a morire sia il miglior baluardo per la tutela di un popolo. Federigo ricorse al tradimento, ma non ne ricavò altro che infamia. Sempre ributtato, scioglie dopo quattro mesi l'assedio, e si ritira a Pavia. Nel nuovo anno 1176 Wiemanno Arcivescovo di Maddeburgo, Filippo Arcivescovo di Colonia, e molti altri prelati vengono con numerosissimi eserciti pei Grigioni e per Chiavenna in soccorso dell'Imperatore. Nel 29 maggio si combatte la battaglia di Legnano. Questa terra, posta tra l'Olona e il Ticino, lungo la via che mena al Lago Maggiore, occuparono i Milanesi, come quella che offre ottime situazioni per la difesa, e per offendere ha non lontane vastissime pianure dove si possono spiegare numerose milizie. Federigo si attendò a Cariate, piccolo borgo, lontano circa mezzo miglio da Fagnano, nel quale sorgeva un antico monastero, fabbricato dalla Regina Teodolinda di santa memoria. Combattevano co' Milanesi. Bresciani, Piacentini, Novaresi, Lodigiani e Vercellesi: coi Tedeschi i Comaschi, i Pavesi e il Marchese di Monferrato. Sul far del giorno settecento cavalieri lombardi mossero contro Federigo: questi manda a incontrarli cinquecento dei suoi; si comincia la battaglia: combattevasi francamente per ambedue le parti, chè i Tedeschi erano in quel tempo i migliori cavalieri del mondo, e gl'Italiani pieni di ardire per la causa difesa. Nondimeno i Tedeschi, per nuovi rinforzi, sempre crescenti, rompono gl'Italiani, e gli mettono in fuga. Ora i vittoriosi, invece di starsi rannodati ad aspettare le rimanenti forze nemiche, si danno ad inseguire i vinti, ed incontrate per via alcune schiere bresciane, quelle parimente percuotono e disperdono. L'Imperatore sebbene biasimasse cotesto intempestivo inseguire, volendosi nondimeno prevalere dello sgomento che le prime mosse avevano gettato nelle file lombarde, carica col grosso dei fanti la compagnia del Carroccio; questa al