Agitato da profonda passione, mosse contro cotesti uomini, che gli stavano davanti; e benchè tacesse, parve minacciarli, dove non lo avessero celermente condotto all'oggetto del suo desiderio. Quei due si levarono tosto, ed avendogli fatto cenno di rimanere un poco, s'incamminarono alla estremità della stanza opposta all'uscio pel quale era entrato Rogiero. Per via uno di loro parlava all'orecchio dell'altro: «Io da qui innanzi, Conte di Caserta, amo avere la vostra approvazione. Che parvi dunque del mio operato?»
«Guarda se la misericordia di Dio è grande…. pure tu mi appari più scellerato assai che egli non sia misericordioso.»
«E sì che le mie parole suonarono religione, e virtù.»
«Tanto è vero, che non si dà momento in cui Satana si mostra così terribile, come quello in cui si veste da Santo.»
«Troppa grazia,» rispose sorridendo il Conte della Cerra; e cavata una chiave, schiuse una porticella assicurata da forti sbarre di ferro. Ciò fatto, vi sporse il capo e chiamò: «Gisfredo! Gisfredo!»—Dopo poco tempo comparve una testa, poi le spalle, e il petto di un uomo, come quando ascendiamo una scala. Il Conte della Cerra gli si fece all'orecchio; lo domandò di alcuna cosa, alla quale avendo egli risposto col cenno del capo affermativamente, si volse a Rogiero, e disse: «Potete avanzarvi.»
Accorse Rogiero, e senza esitare si cacciò giù per la scaletta strettissima. I due Conti gli tenevano dietro: Gisfredo lo precedeva facendogli lume con la lanterna che aveva recata. Egli poi, per quanto studio vi ponesse, non potè conoscere nè anche chi fosse questo Gisfredo, perchè il suo volto andava come quello degli altri ricoperto di drappo; ma dall'afferrarlo ch'ei fece alcuna volta all'improvviso, come fingendo di cadere, dal suo volgersi rattissimo e sospettoso, dallo smarrimento delle pupille, ch'egli osservò attraverso i fori del drappo, allorchè gli prese la mano, e quasi per caso gliela pose su la guardia del suo pugnale, si accôrse essere costui un uomo di frode, anzichè di aperta violenza.
CAPITOLO SESTO.
LEGA LOMBARDA.
…………. Una feroce
Forza il mondo possiede, e fa nomarsi
Dritto. La man degli avi insanguinata
Seminò la ingiustizia: i padri l'hanno
Coltivata col sangue, e omai la terra
Altro frutto non dà.
ADELCHI, tragedia.
L'ordine di questa nostra narrazione vuole, che per noi si esponga un prospetto dei casi della famiglia di Svevia, nei secoli decimosecondo e decimoterzo. La nostra mano si accosta tremando a vergare queste carte, imperciocchè i fatti dei feroci che vissero in cotesti tempi infelici appaiano scritti col sangue; nè occorra pagina di storia, che non gridi delitto. Chiunque ricusasse prestare fede a quanto andremo narrando, sappia che non seguirebbe sano consiglio, avendolo noi raccolto da antichi e da moderni Storiografi. Per questo sarà manifesto come l'uomo posto solo dal caso in quel consorzio, ai patti del quale non si trovò presente, nè avrebbe, trovandovisi, consentito giammai, qualora si avvisi scostarsene, rivendicando parte dei diritti pei quali fu conformato, si tiri addosso la guerra di tutti i suoi simili; i quali, non perchè la sua azione sia essenzialmente colpa, ma perchè apporta loro nocumento, lo condannano all'onta e alla morte, a nome di una legge che hanno costituita i più forti soltanto. Al punto stesso vedremo le nazioni di proporzionata forza, tra loro da nessuna altra legge costrette, tranne la giustizia di Dio, la quale o non temono, o irridono, muoversi intere l'una alla rovina dell'altra; la debole innocente additarsi ai posteri con nomi di scherno, le virtù sue convertirsi in argomento di vituperio, che la calunnia, compiacendo all'oro dei potenti, o per naturale propensione al male, vomiterà dalle sue mille bocche di rettile; l'avventurosa colpevole strascinare il mondo a fare omaggio al suo splendido delitto, e l'uomo, o nato o piuttosto educato per essere iniquo o stolto, nulla curando il sangue fraterno che gli bagna le piante, nulla le ossa insepolte, nulla il grido delle vittime che prorompe dai sepolcri invendicati, applaudirla nella ebbrezza del cuore con le stesse voci che innalza alla Divinità; onde la mente del lettore sarà percossa da quella sentenza, che sembra assurda, e suona pur troppo orribilmente vera: lo stesso delitto che manda l'uomo al patibolo, rendere illustri le nazioni nella memoria dei posteri. Vedremo nel girare dei tempi quanto si prolunghi perenne la sventura tra noi, e la gioia fugga veloce, e quindi ricaveremo un'altra dura sentenza: essere il male nostro proprio retaggio, e stoltamente affidarsi colui, che ogni speranza di contento ripone in altro luogo che in cielo. Si vedrà dal seno della tirannide nascere la licenza, e dal seno della licenza nascere la tirannide; e i popoli del continuo travagliarsi in traccia di una libertà, che conseguita non hanno saputo poi mantenere, come quella che richiede l'esercizio di tali virtù che essi non conobbero mai, o se pure praticarono una volta, sì il fecero non già per libera elezione, ma per paura d'imminente pericolo; onde trarremo motivo di tenere per vero il detto di quel filosofo: nessuno ente vivere al mondo più codardo di lui, che opera il bene per la sola paura del male. Finalmente vedremo lo schifoso spettacolo di una Nazione vinta, e pasciuta di obbrobrio, che solo si dimostra viva per le vili querele contro i suoi oppressori, e per le più vili invidie contro chiunque tra lei tenta con opera di mano, o di consiglio, sorgere dalla melma dell'anima sua; nazione nuda di virtù proprie, e di altrui, doviziosa dei vizii di tutta la terra; gonfia di orgoglio per una gloria antica che forma la satira più sanguinosa del vituperio moderno; superba di tali geste, che chi le imprese avrebbe voluto non farle, qualora avesse saputo che dovevano essere argomento di petulanza, anzichè di rampogna, a tanti miserabili, ridicoli, e scellerati nepoti: Popolo insomma già signore,—oggi locandiere di tutte le nazioni del mondo.—Oh! dall'alto delle rupi, inutile schermo ai fiacchi che non sanno contendere co' petti, dal profondo dei mari che ti circondano, dalle foreste, dai campi… da tutto il creato, maladizione e sventura su te, vilissima schiatta, che non sai vivere nè ardisci morire! Possa consumarti il fuoco del cielo, e teco i padri, i figli, e i figli dei figli, poichè la goccia nera del cuore¹ distilla di generazione in generazione, nè si diminuisce per tempo. La pianta della infamia si abbarbicò intorno l'albero della vita, e ne ha guaste le più profonde radici. Gli anni si portano la vita, che è il sepolcro dell'anima, e allora rimane dei trapassati la fama;—qual fama! Chi più vive è più scellerato o più vile, e le colpe che si portano alla fossa sono in proporzione degli anni che abbiamo vissuto. E Dio volesse, che per molti ogni anno della loro vita potesse essere contato da una bassezza soltanto!
¹ «Era la notte, ed io giaceva a cielo scoperto tra due colline, allorchè vidi venirmi innanzi Gabriele in compagnia di un altro spirito celeste. I due immortali si curvarono sopra di me; l'uno mi aprì il petto, l'altro mi svelse il cuore, lo premè tra le mani, e fece uscire la GOCCIA NERA, ossia il peccato originale, e lo ripose al suo luogo. Questa operazione non mi dette dolore.» Così Maometto.
Di qua dal Reno, tra la Franconia, la Baviera, e la valle dell'Eno giace un paese nominato Svevia. Corre fama che negli antichi tempi fosse Regno, nei successivi fu Ducato; finalmente nel secolo scorso perde anche questa prerogativa. La casa di Austria, e di Vittemberga, se ne divisero il suolo; nè ora incontriamo più principe in Germania che assuma il titolo di Duca di Svevia.
Nei secoli di cui abbiamo impreso a trattare durava una feroce guerra civile, cagionata dalle fazioni guelfa e ghibellina. Si riunivano i Guelfi sotto le bandiere dei Duchi di Baviera, stipite delle case di Hannover, di Brunswich, e di Modena: i Ghibellini si erano posti a capo i Duchi di Svevia, e così si chiamavano dal castello di Gibeling, che questi Duchi possedevano nella diocesi di Augusburgo.
Corrado III di Hohenstauffen, succeduto a Lotario III dopo gloriosissimo