La signora di Capo le Case gli ricompariva, ma con contorni meno precisi: più nettamente, ora, gli si ripresentava la donna dal mantello di lontra, incontrata per le scale, in Via del Gambero; ne aveva visto il piede, arcuato, snello, che si appoggiava con precauzione sugli scalini, lungo la ringhiera di ferro, — e avrebbe voluto sapere dove andava, poichè, turbata da quell'incontro, ella aveva finto di picchiare alla porta della sarta e poi era salita più su, chinando il capo, immergendo il basso del viso nel grande fiocco di velo marrone. La portinaia, certo, doveva conoscerla: la doveva saper lunga quella portinaia dal viso floscio e dagli occhi che facevano schifo: una malizia filtrava dalle sue parole leziose. Chissà! doveva essere stata bella, la portinaia dal parrucchino ignobile, fors'anche elegante: doveva aver tutta una singolare istoria che egli non le aveva dato il tempo di raccontare, com'ella desiderava. La sora Virginia invece gliene aveva narrata molta parte, della sua storia: ma che era questa moglie che leggeva romanzi, mentre il marito cucinava gli gnocchi, in cucina? E dall'abbattimento egli risorgeva, a grado a grado, con una curiosità crescente per tutti questi enigmi femminili: la visione della signora russa, il mistero di quella figura mistica, in Via Capo le Case: la visitatrice di Via del Gambero e il suo segreto: il passato della portinaia: lo strano intreccio che appariva e scompariva nella loquacità della sora Virginia. Avrebbe voluto sapere, conoscere, apprezzare tutta questa femminilità fuggente, che spariva, che si nascondeva alla sua curiosità; e da questa sua minuta ricerca, da quest'analisi delle donne viste e delle donne immaginate, una domanda, sino allora latente, sorgeva, una figura si sovrapponeva a tutte, le assorbiva e si rizzava, alta, flessuosa, nerovestita, placidamente rosea dietro il velo nero, andante lontano, con gli occhi raccolti e il passo misurato: la moglie di Sua Eccellenza. Dove poteva andare a quell'ora, dove andava la moglie di Sua Eccellenza?
Ma fuori, nella strada, il grosso largo duca di Bonito, il popolare deputato napoletano, dalla facciona tagliata da un colpo di sciabola, passò, con quel movimento di rullìo sulle gambe che lo faceva rassomigliare, camminando, a una nave pesante mercantile, una di quelle navi nere e piatte che approdano nei piccoli porti di Torregreco e del Granatello a Portici, a portarvi carbone e a caricare maccheroni: accanto a lui, il fido amico, il deputato Pietraroia, dal quieto viso e dal carattere violento, dalla voce moderata e dalle frasi appassionate, che taceva per mesi e mesi alla Camera, e poi, un giorno, scoppiava con una forza meridionale, meravigliando tutti.
L'onorevole Sangiorgio li seguì con l'occhio, un minuto; tornavano da colazione, si fermarono sul marciapiede, con la terza figura della Trinità napoletana, l'onorevole Piccirillo, dalla bionda barba fluente, dagli occhietti azzurri, il domatore degli irruenti quartieri popolari napoletani. E sul marciapiede, un dialogo vivace cominciò: l'onorevole Piccirillo narrava un fatto grave, senza dubbio, gesticolando, agitando la mano storpiata in duello con l'onorevole Dalma, afferrando il bottone dell'amplissimo soprabito del duca di Bonito che sogghignava e sghignazzava, incredulo, ironico, con la freddezza dell'uomo che ha vissuto, mentre l'onorevole Pietraroia, tranquillo, ascoltava, arricciandosi delicatamente un baffo. E dirimpetto all'onorevole Sangiorgio, nascosto dietro un tavolino, con le gambette raccolte e il viso di bambino vecchiotto, l'onorevole Scalzi, il deputato operaio, il solo che vi fosse al Parlamento e che Milano aveva mandato, faceva colazione, modicamente, con una tazza di caffè e un panino.
Francesco Sangiorgio, messo di nuovo a contatto con quel suo mondo, ripreso da un più serio bisogno di osservazione, si sentì a un tratto rinvigorito, come strappato a quel vaneggiamento d'indolenza, che lo turbava dalla mattina. Tutte quelle donne che aveva viste, con cui aveva parlato, gli avevano messo nelle fibre una debolezza, gli avevano immeschinito l'animo sino al pettegolezzo, e scomposta la fantasia in sogni ridicoli e inutili.
Una natural reazione gli restituiva l'equilibrio, e col buon senso egli acquistava una lucidezza di ragionamento, un'acutezza di logica che penetrava e intendeva quanto gli era rimasto oscuro la mattina. Egli intendeva che fosse questo accumulamento di case mobiliate, di quartini mobiliati, di stanze mobiliate, che sorgono, s'infittiscono in tutta Roma, e formano in essa una vegetazione larga e potente che quasi la soffoca; e tutto questo rimescolìo bizzarro di donne borghesi, di sarte, di portinaie, di serve, di bottegaie, che dall'affittar camere traggono il più facile e più sicuro guadagno; e fra colui che cerca casa e tutte queste donne, un contatto necessario, le comunicazioni interne delle porte chiuse e aperte, in cui si conviveva, un vedersi al mattino, alla sera, nelle ore pericolose della giornata, una dominazione femminile che comincia dalla casa, si estende alla biancheria, poi ai vestiti, poi ai libri, poi alle lettere dell'inquilino, e arriva sicuramente, per vie oblique, sino alla persona. Egli sentiva quanto vi era di drammatico, di comico, di appassionato e di corrotto, in tutto quel sistema di ingressi liberi, di quartini a due porte, di portoni a due sbocchi, di chiavi inglesi a due ingegni, in tutto quello sdoppiamento, in quella fantasmagoria di usci chiusi, di serrature che stridono, di campanelli che non squillano, di scarpette femminili che non scricchiolano, di veli femminili molto fitti e di mantelli di pelliccia ermeticamente chiusi: e il grande equivoco della vita romana, così corretta e immobile nella apparenza, così inquieta, fervida, calda nella sostanza, gli si rivelava in una delle sue parti.
E nel suo vago, istintivo terrore del femminile preponderante e prepotente, nel suo bisogno selvaggio di solitudine e di forza, egli prese la casa in Via Angelo Custode, dove non vi erano donne.
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