A cotesti discorsi i soldati tacevano siccome rimorsi dalla vergogna, o scorati da presentimento. Più di tutti il Machiavello. Uno fra loro, crollando ad un tratto la testa come per cacciarne i cupi pensieri, favellò:
«Lupo, le tue querele paionmi generose, non savie. Noi possiamo di quest'infamia lavarci le mani, e non mica come Pilato. L'onta ricade intera su l'Albizzi, il quale comandò la partita: ed ora, chiamato dai signori Otto a sindicato, dovrà renderne ragione col capo.»
E Lupo rispondeva:
«Il sangue macchia, non lava; la colpa del commessario si confonde con quella dei soldati; e nel mondo si leva un vituperio per tutti che tu non sai placare. Per Dio! così non istà bene. Se osservi il comando del capitano codardo, una condanna di obbrobrio insieme con lui ti contamina; se ti rifiuti agli ordinamenti della milizia, ti puniscono di morte: — il caso di Pandolfo Puccini informi...»
«Lupo, io ti assicuro», osservò Ludovico, «la passione aombrarti l'intelletto: al soldato, quando obbedisce il cenno del superiore, la fama è salva.»
«Poniamo via», riprende Lupo, «e che egli obbedendo allo iniquo comandamento non abbia infamia come soldato: ma fuggirà egli per avventura anche il danno come cittadino? Io per me lo ripeto, — così non istà bene. Immaginate, compagni, che, avendo noi giurato fedeltà al Palazzo di Fiorenza, domani la Signoria si avvisasse comandarci di abbattere Marzocco, gridare morte alla Repubblica, viva le palle: dovremmo, o no, obbedire? Se no, tristi soldati; se sì, pessimi cittadini. Io, non ho letto sui libri; — la disciplina in campo del signor Giovanni costringeva, fuori di misura, severa: e nondimanco ho sempre tenuto fisso in mente qui sotto giacere un qualche grave errore da doversi emendare.»
«Ogni male viene dalla testa», soggiunse Ludovico; «bisogna attendere prima di tutto a nominare buoni signori e buon capitano, poi rimetterci interamente ai comandi; — se togli ciò, nissun governo, nessuna disciplina possono reggere.»
«Sì bene: ma quando l'errore è commesso? Forse la pioggia non bagna le membra del soldato come quelle del cittadino, non le assidera il freddo, non le arde il fuoco? Il soldato che impegna le braccia ha forse venduto il cuore e la mente? Se il soldato vive nei campi, rinnega per questo la patria? Non conserva egli sempre desiderii ed affetti di cittadino? E se abbandona la cara famiglia pei rischi della guerra, ciò non fa egli appunto per tutelarla da oltraggio straniero? Ora dunque, quando conosce a chiara prova un comando imbecille o traditore, sarà obbligato ad eseguirlo e così con le sue mani procurare un fine contrario a quello pel quale mosse dal dolce luogo dove pure lo trattenevano pietà dei parenti, dolcezza di marito, amore dei figli? Ditemene quante volete e sapete, voi non arriverete a persuadermi che il soldato che mise a cimento la vita per la libertà della patria debba obbedire come bestia insensata e feroce allorquando gli ordinano di ammazzarla.»
«E per altra parte, se concedi facoltà al soldato», riprende il Machiavelli, «di ponderare, prima di obbedirlo, il comando (lasciamo da parte che molti ne farebbero pretesto di tradimento o d'ignavia), innanzi che l'uomo si fosse determinato a soddisfarlo, l'occasione andrebbe perduta; perocchè voi sappiate, Lupo, il destino delle battaglie pendere sovente da un minuto.»
«Voi siete dotto, voi, e da tale nascete che la sapeva lunga e la sapeva contare; sicchè poco sforzo ci vuole a far comparire scempie le mie parole. — Certo che in mezzo alla battaglia, quando il capitano ordina: Avanti! — il soldato si fermi e risponda: Lasciatemi pensare; — mi sembra cosa bestiale. — E se dall'altro canto considero che intendono ridurre il soldato in condizione di arnese composto di ossa e di carne, da spingerlo avanti, indietro, da parte, senza intelletto, senza cuore; e' mi par cosa anche più bestiale della prima. Tra le due estremità deve trovarsi una strada di mezzo. Io non ce la so vedere; ma il sangue mi bolle allorchè penso un soldato figliuolo del popolo possa riuscire, per disciplina, parricida e stromento di servitù nelle mani del tiranno o del traditore.»
«Veramente, dinanzi alla legge suprema di conservare la libertà, credo ancora io che la disciplina taccia; allora qualche cosa che sta sopra alla disciplina delle milizie approva la ribellione, anzi la persuade; voglio dire la patria e Dio. Però triste indagini paionmi queste. Di che temiamo noi? Noi abbiamo signori animosi, capitani provati.»
«E Malatesta?... — Ma via porgetemi il boccale, ch'io voglio bagnarmi la bocca. Ho parlato tanto! e forse, e senza forse, folli parole, — peccato della vecchiezza.» — Qui bevve e riponendo il boccale sulla tavola, continuò: «Vedete, l'uomo si assomiglia al boccale pieno di vino. Il tempo ogni anno vi beve un sorso lungo, sicchè in fondo ci rimane il peggio: colla età cascano i capelli e il giudizio. Viva la gioventù, forte, audace, fidente... Io stasera, invece di concitarvi con belle storie di guerra, vi attristava con torbide fantasie di vecchio gufo. — Ve ne domando nuovamente perdono: io me lo concedo tanto più di leggieri in quanto che penso il vostro cuore per parole non crescere nè diminuire. — Animo! su, compagni! non è la prima volta che gl'imperatori videro le nostre mura. — Le videro, non le espugnarono. Non dico vero, Ludovico? Messere vostro padre deve pure averlo scritto nelle sue storie.»
«Sì, certo, e udite come la racconta, che io me la sono serbata a mente: «L'imperatore (era Arrigo VII), deliberato di domare i Fiorentini, venne per la via di Perugia e di Arezzo a Firenze, e si pose con lo esercito suo al monastero di San Salvi propinquo alla città a un miglio, dove cinquanta giorni stette senz'alcun frutto: tanto che, disperato di potere disturbare lo stato di quella città, ne andò a Pisa. Correva l'anno del Signore 1312.»
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