L'assedio di Firenze. Francesco Domenico Guerrazzi. Читать онлайн. Newlib. NEWLIB.NET

Автор: Francesco Domenico Guerrazzi
Издательство: Bookwire
Серия:
Жанр произведения: Языкознание
Год издания: 0
isbn: 4064066069841
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quale, sotto colore di vendicare la morte di Paolo suo fratello, condannato dai Fiorentini ad avere mozza la testa pel tradimento di Pisa, invero poi per allargare lo stato a Cesare Borgia, che lo pagò più tardi a Sinigaglia[46], si condusse con l'esercito su quel di Arezzo. I Fiorentini, d'armi sovvenuti e d'istanze presso papa Alessandro da Luigi XII di Francia, lo riconquistarono. Nicolò Machiavelli, nella presente occasione consigliando sul modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati, scriveva dovesse la Signoria assicurarsene nel modo prescritto dai Romani[47], i quali pensarono: «che i popoli ribellati si debbano beneficare o spegnere; essere ogni altra via pericolosissima; a lui non parere nessuna di queste cose avessero praticata, perchè non si chiama benefizio far venire gli Aretini a Firenze, toglier loro gli onori, venderne le possessioni, sparlarne pubblicamente, tener loro soldati in casa; nè chiamarsi assicurarsene lasciare le mura in piedi, lasciarvi abitare i cinque sesti di loro, non dar loro compagnia di abitatori che li tenessero sotto, e non si governare in modo con essi che, nelle guerre che fossero fatte a Firenze, non avesse più a splendere in Arezzo che contro il nemico:» onde, bene considerato il termine col quale la Signoria la teneva, egli formava questo giudicio sicuro: «Che come fosse assaltata Fiorenza, di che Iddio guardi, o Arezzo si ribellerebbe o darebbe tale impedimento a guardarla che la sarebbe spesa insopportabile alla città.» I modi praticati dalla Signoria nè amore rivelavano nè vigore, e il popolo presuntuoso, anzichè attribuirli a benevolenza d'indole o ad esitanza, gli attribuiva recisamente alla paura e si faceva più pronto alle offese. Accostandosi i nemici, ordinarono ai cittadini sospetti sgombrassero le città, a Firenze si presentassero: tardo e debole provvedimento. Nelle commozioni dei popoli voglionsi bene esaminare le cause per le quali accennano muoversi, e secondo la diversità di quelle usare degli opportuni rimedi. Se il popolo, agitato dalla passione di una famiglia o di un uomo s'infiamma, cotesto ardore dura poco, e tolta via la famiglia o l'uomo, può stare sicuro che in breve si quieterà; dove poi il popolo si muova per passione propria, a nulla giovano i bandi o le morti di alcuni cittadini; di tutti i semi quello che abbiamo veduto partorire maggiore copia di messe è il sangue dei martiri della libertà versato sopra la terra della oppressione, egli troverà sempre un Lando e un Masaniello; nè al potere riescirà spegnerli tutti, imperciocchè troppi sieno coloro nel petto dei quali arde un fuoco divino che aspetta tempo a manifestarsi. Allora bisogna o nei suoi desiderii compiacere il popolo, o con molte soldatesche frenarlo, o, snaturandone gradatamente lo spirito, assuefarlo a servitù, come fece Cosimo I a noi Toscani, o diroccarne le mura, gli abitatori disperderne, seminarne il terreno di sale, come fece Federico I ai Milanesi, i quali due ultimi spedienti, oltre all'essere tirannici, talvolta riescono incerti, ed invero valsero a Cosimo, a Federico no. E poi, alle cause interne di ribellione si aggiungevano gli stimoli di fuori. Il conte Rosso da Bevignano, citato come sospetto a comparire davanti Simone Zati commissario, fuggì di Arezzo e prese soldo nel colonnello di Sciarra. Divenuto caro al principe di Orange per la sua piacevole natura e più per l'ingegno maravaglioso col quale sapeva condurre le imprese avviluppate e difficili, cominciò, secondo il costume dei fuorusciti, a dargli ad intendere che avrebbe ribellato Arezzo, che stava in sua mano il destino della città, che la voleva consegnare a lui solo; e a queste aggiunse altre più cose assai, a cui il principe o credendo o piuttosto simulando credere, gli diede patente amplissima per vedere che cosa e' sapesse fare. Il conte si abboccò con i suoi partigiani, gli adescò con l'antica lusinga della libertà, come se ribellarsi a Firenze per vivere nel dominio del principe potesse chiamarsi libertà, apparecchiò armi, raccolse danari, e le bandiere notate da Lupo alle finestre della villa erano il segno convenuto pel quale i congiurati, mosso rumore in città, dovevano dare campo a quei di fuori di assalire le mura senza troppo lor danno. Veramente, se la codardia dell'Albizzi non fosse stata, cotesta impresa avrebbe avuto il termine a cui vediamo ogni giorno capitare i tentativi dei fuorusciti; ma in ogni modo adesso si facevano manifesti i prudenti consigli di Nicolò Machiavelli e la imprevidenza dei capi.

      ... tutto affannato in suono di pianto supplicava il Commissario... Cap. II, pag. 50.

      Il capitano Ferruccio, a cotesto spettacolo doloroso, diventò pallido come la morte: grondava sudore; all'improvviso traendo l'Altoviti davanti una immagine riposta in certo tabernacolo sopra le mura dei quartieri, parlò:

      «Iacopo, giuratemi per questa immagine benedetta che voi non renderete la cittadella, se prima non ne venga l'ordine dai Dieci. Dal tenere questa fortezza forse dipende la salute della patria...; della vergogna non parlo...»

      L'Altoviti levò gli occhi e conobbe rappresentare la immagine san Donato, protettore degli Aretini.

      «Qui nel mio petto, Francesco, io serbo miglior santo che non è costui», e si accennava il cuore. «I due ultimi bariloni di polvere saranno adoperati a mandar all'aria la fortezza e me...»

      «Sta bene, addio!»

      E profferite le parole, il Ferruccio si caccia giù per le scale; alcuni gii tengono dietro senza ch'ei se ne accorga: scende in città e se ne corre rapidissimo all'albergo. Siccome in quel punto ei non teneva ufficio pubblico, non si era ridotto ad abitare i quartieri. Certo ospite antico della sua famiglia lo aveva accolto in casa; se ciò non fosse stato, nella fuga dei Fiorentini d'Arezzo gli avrebbero condotto via la cavalcatura. Irrompe nella scuderia; il buon destriero turco, nel sentire appressarsi il suo signore, si commove tutto e nitrisce; egli, dato di piglio agli arnesi, comincia ad adattarglieli intorno al corpo con incredibile ardore; siccome accade in quella furia, ora gli cascano di mano, ora l'uno scambia con l'altro e, invece di affrettarsi, ritarda; il cavallo freme irrequieto, squassa la testa, percuote il terreno, impaziente di lanciarsi.

      «Sta, sta, Zizim; non è un giorno di esultanza questo; se tu potessi vedere il cuore del tuo padrone come geme contristato, ne avresti pietà; tra poco ti converrà far prova di quanto sei veloce; ingegnati di correre, di volare, ma comunque tu voli, non ti risparmierò i fianchi; te li sentirai pungere; il tuo bel candore sarà contaminato di sangue... Per Dio! non ti addestrava a tal prova; nè tu vi ti aspettavi... ed io nemmeno. Avevamo disposto a morire insieme in un giorno di battaglia...; ora..., prima che venga la stagione dell'onore, il vituperio ci affoga. Corri non per acquisto di gloria... ma per fuggire vergogna...; nonpertanto, sia per procurarle decoro, sia per salvarla dall'obbrobrio..., sempre ben muore il cittadino per la sua patria... or sei sellato... va'!

      Gli balza in groppa, tira la spada e con la voce e con gli sproni lo spinge: il buon corsiero, compresa la voglia del suo signore, corre, vola, divora la via; par che non tocchi la terra, e par saetta scoccata dall'arco. Il cavaliere trascorre rapido tanto che gli oggetti gli fuggono vertiginosi, sformati; dinanzi gli occhi; l'aria rotta violentemente su i labbri non gli concede articolare parola... eppure urla in maniera spaventevole: giunge dove una turba di popolo adunata dintorno alla bandiera imperiale esultava baccante di allegrezza; il buon cavallo la fende come fiumana; l'onda della plebe si frange clamorosa e volta le spalle sopraffatta dal terrore; giace la bandiera deserta, e già tra i gridi discordi si ode mormorare; «Viva Marzocco!»

      Poichè fu la paura un poca quieta, si domandarono le genti chi le avesse sbarattate, chi fosse, come si chiamasse; non seppero dirlo: alcuni affermarono con giuramento essere comparso uno spirito infernale che non aveva forma di cosa conosciuta; per furia, per rumore e per luce terribile; solo una chioma tesa per ventilargli dietro per l'aria a guisa di cometa, di augurio funesto: altri invece sostennero avere veduto un volto di angiolo, un cavaliere celeste, certamente san Giorgio.

      Il cavallo, dell'impeto rovinoso punto rallentando, arriva alla porta; In cotesto istante una mano di cittadini, recati sassi e travi, tentava sbarrarla. Ferruccio, rinforzando la voce, tale manda fuori un urlo che anch'essi atterriti si danno alla fuga; irrompe pei campi; tende lo sguardo e, lontano lontano, riconosce il codardo Commissario.

      Dai fianchi del cavallo sgorga un nuovo spruzzo di sangue; di più non può correre, nondimeno sente più e più sempre trafiggersi. Ecco raggiunge le milizie disperse, le passa, le ha passate.

      Dietro al cavaliere si leva un rumore: «È il Ferruccio! Anche il Ferruccio si salva!» Ei non lo intende, o non lo bada... continua a precipitare dietro le tracce del Commissario. La strada svolta e rasentando una macchia si curva, sicchè all'improvviso costui gli scomparisce dagli occhi. Il Commissario di troppo ha precorso;