“Sparpagliatevi,” disse agli altri. “Uno di voi trovi un punto alto e invii il segnale agli altri con la torcia. Dite agli altri uomini di fare lo stesso. Voglio che assedino la città, che la rendano nostra. Schiacciate ogni resistenza e chiunque si trovi per strada è un bersaglio, ma non distruggete più del necessario.”
“Voi dove starete, Vostra Maestà?” chiese l’ufficiale.
“Seguitemi.”
Ravin scelse una casa nobile a caso; aveva un’elegante costruzione in pietra raffinata che si estendeva attorno alla porta e delle piante sistemate alle finestre che scendevano come lacrime per i morti della città. Si avvicinò alla porta e la colpì con un pugno. Comprensibilmente, solo il silenzio gli rispose.
Ravin alzò un piede e diede un calcio alla porta con lo stivale, frantumandone i catenacci che la tenevano chiusa con un solo colpo. Entrò in un corridoio dove erano appesi dei quadri, che raffiguravano figura dopo figura ciò che gli sembrava una dichiarazione sulla discendenza del proprietario e sul suo diritto rispetto alla proprietà. Ravin li stava ancora guardando quando un uomo gli si avvicinò nella tenue luce della casa, correndogli incontro con una spada alzata. Ravin la colpì su un fianco e poi gli infilzò il petto con la sua stessa lama, facendolo cadere ai suoi piedi.
“Se fossi partito da lì, saresti sopravvissuto,” disse.
Camminò rapido per la casa e fino alla cucina, seguendo l’unico sfarfallio di luce presente in quel luogo. Spinse la porta ad aprirla e vi trovò una donna e quelle che pensò fossero le sue figlie, rannicchiate in fondo alla cucina insieme a una manciata di servitori. Erano accovacciati accanto al fuoco e avevano rovesciato un grande tavolo di legno per usarlo come una specie di barricata. Una coppia di servitori aveva in mano dei coltelli e avanzava come potesse combattere.
Ravin alzò la spada, con la lama ancora bagnata dal sangue dell’uomo che gli si era avvicinato.
“Credete davvero di potermi battere?” chiese. “Io sono Ravin, Re dei Tre Regni e vostro legittimo sovrano. Inginocchiatevi o morirete.”
Mise tutte le sue forze in quel suo comando vocale e vide gli uomini impallidire mentre capivano l’enormità di chi avevano davanti. Il coltello di uno sferragliò a terra, ma l’altro fu più lento. La pazienza abbandonò Ravin, che conficcò la spada nel petto del secondo uomo, ignorando le urla delle donne intorno a lui. Gli diede poi un calcio per mandarlo all’indietro e spinse il tavolo a rimetterlo in piedi. Prese una sedia, la sistemò davanti al tavolo e vi poggiò sopra la sua spada ancora insanguinata.
Guardò quei suoi uomini che lo avevano seguito. “Io starò qui. Fate il vostro dovere.”
Si misero in marcia e solo una coppia di loro restò a fargli da guardia del corpo. Ravin se ne stava seduto lì, osservando quelli che erano rimasti nella stanza. Ora erano tutti in ginocchio e lo guardavano con evidente terrore.
“Uno di voi, mi porti del vino,” ordinò. “Il resto di voi dia per scontato un semplice fatto: tutto ciò che pensavate fosse vostro adesso è mio, i vostri soldi, le vostre proprietà, voi stessi. Questa città, questo intero regno… è tutto mio.”
O lo sarebbe diventato, non appena l’incantesimo del mago fosse svanito.
CAPITOLO SECONDO
La grande sala del castello era un alveare di attività; le sue piazze di moquette erano invase da persone che correvano avanti e indietro per qualsiasi compito potessero svolgere e le alte mura di pietra rimbombavano delle loro conversazioni mentre cercavano di capire cosa dovessero fare dopo.
In quel senso, ricordava a Lenore il brusio delle attività nelle settimane precedenti il suo matrimonio, quando il castello brulicava per i festeggiamenti, ma ora non c’era più nulla di leggero o gioioso. Al contrario, alcuni striscioni intorno alle mura erano stati tirati giù, mentre i nobili stavano discutendo se dovessero essere tagliati per ricavarne delle bende portafortuna; nel frattempo, il trono giaceva vuoto, perché di Vars non si vedeva neanche l’ombra e colui che avrebbe dovuto esservi sopra era morto.
Quel solo pensiero riempì Lenore di dolore, ma dovette fingere di essere calma, perché era la colonna portante attorno alla quale tutti gravitavano. Avevano bisogno di qualcuno che avesse il controllo e un certo equilibrio, e che pensasse mentre loro volevano solo agire; era necessaria una principessa e questo significava che Lenore stava recitando la parte per cui si era esercitata per tutta la vita.
“No,” disse, “non barricate solo la porta esterna della grande sala; voglio che i pezzi vengano inchiodati sul posto.”
“Ma dove troviamo i chiodi?” chiese un nobile. A Lenore non piacque il fatto che si rivolgesse a lei per ricevere istruzioni, quando solo un giorno o due prima l’avrebbe vista come una bella ma inutile statuetta.
“Non lo so. Setaccia i negozi del castello se devi,” replicò Lenore. “Vai.”
L’uomo si mise in marcia senza fare domande. Molti dei presenti agivano senza mettere in discussione le sue istruzioni. Lenore sospettava che molto avesse a che fare con chi era: la sorella del nuovo re e la moglie del figlio del Duca Viris. Forse qualcosa aveva anche a che fare con le persone che volevano semplicemente che qualcuno dicesse loro cosa fare, adesso che c’era una crisi.
Lenore si ritrovò a desiderare che ci fosse qualcuno che lo dicesse anche a lei.
In quel momento era spaventata come non lo era mai stata in vita sua. C’era un esercito in città, composto da persone come quelle che l’avevano rapita. I Cavalieri dello Sperone se n’erano andati, così come la maggior parte dei soldati. Come potevano resistere a tutto ciò? Se il castello fosse caduto, cosa sarebbe successo? Sarebbero stati uccisi tutti quelli che vi si trovavano dentro?
Quella non era nemmeno la cosa peggiore che Lenore potesse immaginare, visti gli orrori che erano accaduti ad alcune delle sue domestiche durante il rapimento. Aveva assistito a una sola battaglia ed era stata abbastanza terrificante, ma come sarebbe stato ritrovarsi davanti a un’intera orda di soldati fuori controllo che si abbatte sul castello?
Poi c’era Re Ravin, l’uomo che aveva ordinato il suo rapimento, l’uomo responsabile della morte di suo fratello e di suo padre. Lenore aveva sentito delle storie sulla sua crudeltà e ognuna era più nauseante dell’altra. Il solo pensiero di lui le mandava brividi di terrore giù per la spina dorsale.
“Vostra Altezza,” disse un domestico. “Volete che le armi vengano portate qui dall’armeria?”
Lenore rifletté sulle sue potenziali truppe. C’erano domestici che probabilmente non avevano mai neanche impugnato una spada in vita loro. C’era una manciata di nobili, molti dei quali erano anziani e apparivano spaventati quanto Lenore. Nonostante ciò, era forse meglio cercare quantomeno di opporre resistenza. Anche morire in fretta, poteva essere meglio delle alternative.
“Recupera tutto il possibile per armare le persone,” rispose lei e indicò un altro domestico. “Vai con lui.”
“Sì, Vostra Altezza,” ribatté l’uomo.
Lenore continuò a organizzare quante più difese possibili per il castello, rivolgendosi a nobili e domestici a turno. “Tu, prendi quanti te ne occorrono e vai nelle cucine a cercare quanto più olio possibile. Portatelo alla porta, iniziate a riscaldarlo e approntatevi a versarlo. Tu, chiudi i cancelli e abbassa la saracinesca.”
“E i nostri che sono fuori in città?” domandò l’uomo.
A Lenore si spezzò il cuore a quella domanda e alla risposta che non voleva dire. “Loro… con l’alta marea non alcuna possibilità di tornare indietro. Se li vediamo tornare, possiamo… possiamo lanciare delle corde.”
Non disse quali fossero le probabilità di un loro ritorno; non ci avrebbe pensato, perché Erin e quello strano monaco erano ancora là fuori a combattere il nemico. Forse, però, erano più al sicuro là fuori che al castello, perché significava che avrebbero avuto la possibilità di nascondersi e scappare quando sarebbe arrivato il momento. Non che Erin sarebbe mai scappata di sua volontà,