Devin si vestì e andò di fretta nella cucina del cottage della sua famiglia. Si sedette a tavola e mangiò dello stufato insieme a sua madre e suo padre. Fece la scarpetta con un pezzo di pane duro, conscio che, nonostante fosse roba povera, ne aveva bisogno, data la dura giornata di lavoro che lo attendeva alla Casa delle Armi. Sua madre era una donna minuta e scattante; appariva così fragile accanto a lui che sembrava potesse rompersi da un momento all’altro sotto al carico di lavoro che svolgeva ogni giorno, nonostante non accadesse mai.
Anche suo padre era più basso di lui, ma robusto, muscoloso e duro come la pietra. Le sue mani erano come martelli e i suoi avambracci erano ricoperti di tatuaggi che accennavano ad altri luoghi, dal Regno del Sud alle terre d’oltremare. C’era persino una piccola mappa lì, che esibiva entrambe le terre, ma anche l’isola di Leveros e il continente di Sarras, dall’altra parte del mare.
“Perché mi stai fissando le braccia, figliolo?” chiese suo padre brusco. Non era mai stato un uomo molto bravo a dimostrare affetto. Anche quando Devin aveva ottenuto il lavoro alla Casa e persino quando si era mostrato capace di fabbricare armi tanto bene quanto i migliori maestri, suo padre si era limitato ad annuire.
Devin nutriva un desiderio disperato di raccontargli il suo sogno, ma sapeva che avrebbe fatto meglio a evitare. Suo padre lo avrebbe denigrato, in preda alla gelosia.
“Guardavo solo un tatuaggio di cui non mi ero accorto,” rispose. Di solito, suo padre portava le maniche lunghe e Devin di rado trascorreva con lui abbastanza tempo per osservarlo. “Perché questo raffigura Sarras e Leveros? Ci siete stato quando eravate un…”
“Non sono affari tuoi!” scattò suo padre, e la sua rabbia era del tutto fuori luogo rispetto a quella semplice domanda. Si tirò giù rapido le maniche, allacciandosele ai polsi, in modo che Devin non potesse più vedere. “Ci sono delle cose che non devi chiedermi!”
“Mi dispiace,” disse Devin. C’erano dei giorni in cui a malapena sapeva cosa dirgli; giorni in cui a malapena si sentiva suo figlio. “Devo andare al lavoro.”
“Così presto? Stai andando di nuovo a fare pratica con la spada, non è vero?” chiese suo padre. “Stai ancora cercando di diventare un cavaliere.”
Sembrava adirato al riguardo e Devin proprio non riusciva a capirne il motivo.
“Sarebbe una cosa così terribile?” gli domandò con esitazione.
“Resta al tuo posto, ragazzo,” sputò fuori suo padre. “Non sei un cavaliere, ma solo un plebeo... come tutti noi.”
Devin ingoiò una risposta irosa. Mancava ancora almeno un’ora prima che dovesse andare al lavoro, ma sapeva che restare significava rischiare una discussione, come tutte quelle che avevano avuto prima.
Si alzò, senza neanche preoccuparsi di finire il suo pasto, e uscì.
La luce del sole lo accarezzò timida. Attorno a lui, gran parte della città stava ancora dormendo, silenziosa alle prime ore del mattino; anche coloro che lavoravano di notte erano tornati a casa. Significava che Devin aveva la maggior parte delle strade tutte per sé, mentre si dirigeva verso la Casa delle Armi, correndo sui ciottoli, in un esercizio rigoroso. Prima fosse arrivato lì, più tempo avrebbe avuto e, in ogni caso, aveva sentito i maestri di spada dire ai loro studenti che quel genere di allenamento era vitale, se volevano avere resistenza in combattimento. Devin non era sicuro che qualcuno di loro lo facesse, ma lui sì. Gli serviva ogni abilità avesse potuto ottenere, se voleva diventare un cavaliere.
Continuò a farsi strada nella città, correndo più veloce, più forte, senza smettere di tentare di scuotersi i residui del sogno. Era stato davvero un incontro?
Colui che è destinato a essere.
Cosa poteva significare?
Il giorno in cui la tua vita cambierà per sempre.
Devin si guardò intorno, come in cerca di un qualche segnale, un indizio di qualcosa che lo avrebbe cambiato in quel giorno.
Tuttavia, non notava niente di diverso nell’ordinaria routine della città.
Era stato solo uno stupido sogno? Un desiderio?
Royalsport era un luogo di ponti e vialetti, di angoli bui e odori strani. Con la bassa marea, quando il fiume tra le isole dell’arcipelago era abbastanza sommesso, le persone avrebbero attraversato gli alvei, sebbene le guardie cercassero di sorvegliare e assicurarsi che nessuna di queste finisse in aree dove non era benvenuta.
I corsi d’acqua tra le isole formavano una serie di cerchi concentrici, con le zone più ricche verso il cuore, protette da strati di fiume al di là. C’erano poi le zone dei teatri e i quartieri nobili, quelli popolati dai commercianti e le zone povere, dove era meglio tenere sott’occhio il borsellino.
Le Case spiccavano all’orizzonte, i loro edifici ceduti a istituzioni antiche, vecchie quanto il regno, anzi di più, dato che erano cimeli dei giorni in cui la storia narrava dominassero i re dei draghi, prima delle guerre che li avevano usurpati. La Casa delle Armi eruttava fumo, nonostante fosse mattino presto; mentre la Casa del Sapere presentava due guglie intrecciate, la Casa dei Commercianti era dorata fino a brillare e la Casa dei Sospiri giaceva nel cuore delle zone dei teatri. Devin continuò a procedere per le strade, evitando quelle poche altre figure che si erano alzate presto quanto lui, mentre correva verso la Casa delle Armi.
Quando vi giunse, era quasi quieta quanto il resto della città. C’era una sentinella alla porta, ma conosceva Devin di vista ed era abituata a vederlo arrivare a orari strani. La superò con un cenno del capo ed entrò. Afferrò la spada sulla quale aveva lavorato nell’ultimo periodo, massiccia e affidabile, adatta alla mano di un vero soldato. Serrò bene il palmo attorno all’elsa e la portò di sopra.
Quello spazio non puzzava, né era sporco come la ferriera. Era un luogo di legno pulito e segatura per raccogliere il sangue versato, dove armi e armature erano poste su dei supporti e uno spazio per le esercitazioni a dodici lati si trovava al centro, circondato da qualche panca, per permettere a chi attendeva l’inizio delle lezioni di sedersi. C’erano bersagli inanimati e set da taglio, tutti predisposti per consentire agli studenti nobili di fare pratica.
Devin andò alla quintana di un armiere, c’era un manichino più alto di lui su una base, dotato di mazze metalliche che fungevano da armi e libero di muoversi in risposta ai colpi dello spadaccino. L’abilità in questo era attaccare e poi spostarsi o parare, per bloccare senza lasciarsi prendere l’arma e colpire senza essere colpiti. Devin tenne la guardia alta e poi aprì le danze.
I primi colpi erano costanti, per cimentarsi nel lavoro e testare la spada che impugnava. Incassò le prime botte di risposta del manichino, poi schivò le altre, acquisendo pian piano dimestichezza con la sua arma. Iniziò ad aumentare il ritmo, aggiustando il lavoro di piedi e cambiando da una guardia all’altra a ogni colpo: lunga, breve, dente di cinghiale, e via da capo.
Da qualche parte in quel fermento, smise di pensare alle singole mosse, ai colpi, alle parate, alle prese e ai bloccaggi, che confluivano in un insieme dove l’acciaio faceva vibrare altro acciaio e la sua lama guizzava per tagliare e affondare. Si esercitò fino a sudare, con il bersaglio che adesso si muoveva a una velocità che poteva fargli male o ferirlo, se avesse calcolato male le cose anche una sola volta.
Alla fine indietreggiò, salutando l’avversario inanimato come uno spadaccino avrebbe fatto con uno vivente, prima di controllare i danni riportati dalla sua lama. Non c’erano graffi, né crepe; ed era positivo.
“Hai una buona tecnica,”