“Scusa per cosa?” chiese Danielle.
Lui sembrò pensarci un momento. Danielle si domandò se stesse effettivamente considerando l’idea di confessare tutti i suoi crimini. Ma alla fine non disse nulla. Danielle annuì con espressione accigliata e si diresse verso il lato della stanza dove aveva lasciato un sacchetto di plastica con dentro bottiglie d’acqua e cracker. Aprì una delle bottiglie e si avvicinò a lui.
“Apri la bocca.”
Lui la guardò con gli occhi stretti a fessura e, per un breve istante, Danielle credette di scorgevi della rabbia; ma presto si trasformò in una sorta di pacata pietà, mentre apriva la bocca per ricevere il primo sorso d’acqua da oltre ventiquattro ore.
Versò lentamente il liquido nella sua bocca, che lui trangugiò avidamente. Danielle continuò fino a quando Aiden non cominciò a tossire. Una volta finito, rimise il tappo alla bottiglia e ritornò alla sua seduta improvvisata.
“Che cosa vuoi?” chiese Aiden. “Non so cosa credi che abbia fatto, ma...”
“Non fare il finto tonto, papà. Ti meritavi tutto questo da un bel po’. So che ti spezza il cuore che io non sia più una bimbetta di otto anni con cui puoi fare il prepotente. Deve bruciarti sapere che non puoi più dominarmi. Dio... cosa avrei dato per poterti fare questo allora...”
“È per tua madre?” Sembrava quasi sorpreso e questo fece infuriare Danielle ancora di più.
“In parte. Gran parte. Sappiamo tutto, papà. Abbiamo letto il diario.”
“Quale diario?”
Danielle scese lentamente dai bancali, gli andò incontro e gli sferrò uno schiaffo violento sul viso. Il suo corpo ondeggiò leggermente per la potenza del colpo, e la trave a cui era appeso con la corda scricchiolò.
“Ritenta.”
Aiden Fine si guardò intorno nella stanza vuota, spaventato e chiaramente alla ricerca di qualche stronzata da dire per tenerla buona.
“Non ci provare” disse Danielle. “Voglio la verità. Abbiamo il diario e l’abbiamo letto. Lo sappiamo, papà. Sappiamo tutto.”
Lo osservò mentre i suoi occhi cercavano di focalizzarsi su di lei. Vide diverse emozioni alternarsi nel suo sguardo: rabbia, paura, risentimento. Alla fine, scelse la vulnerabilità.
“Ti prego, Danielle. Rifletti bene.”
“L’ho fatto. Credimi, l’ho fatto” rispose voltandogli le spalle. “Forse anche troppo.”
Tornò alla sporta di plastica e ne tirò fuori altri due oggetti: uno straccio nuovo e il diario di sua madre. Mise il diario sulla pila di bancali e si avvicinò al padre con lo straccio. Lentamente, glielo premette contro la bocca e lo spinse con forza. Quando fu ben tirato, glielo legò dietro la testa, creando un rozzo ma efficace bavaglio.
Poi tornò sui bancali, sedendosi e aprendo il diario. “Quale parte vuoi sentire per prima? Quella in cui la mamma era quasi certa che ti scopassi un’altra nel vostro letto – che sarebbe poi Ruthanne Carwile, nel caso te lo fossi dimenticato – o magari quando era terrorizzata che potessi ucciderla?”
Danielle si gustò con estremo piacere i lamenti che suo padre fece attraverso il bavaglio. Le fece pensare che il suo piano sarebbe andato a buon fine. Si era sbarazzata del cellulare, lanciandolo dal finestrino in un punto imprecisato delle campagne della Virginia. La sua auto era parcheggiata dietro il vecchio mattatoio, nascosta dalle erbacce in quella che doveva essere stata una piazzola per i camion delle consegne.
Era praticamente invisibile, a quel punto. Aveva un registratore a nastro per raccogliere le sue confessioni e una pistola per infilargli un proiettile in mezzo agli occhi. Non si illudeva che avrebbe confessato tanto facilmente, e per lei andava bene. Non le dispiaceva farlo sudare un po’. L’unico interrogativo era quanto sarebbe durata la sua pazienza.
Iniziò a leggere. Lo fece in modo accorato, come se leggesse a un bambino la storiella della buonanotte. Lo osservava per vedere se sentire quelle parole lo mettessero a disagio. Sì, voleva che stesse male; non aveva problemi ad ammetterlo. Ma questo la indusse anche a chiedersi se si fosse spinta troppo oltre, se infine si fosse allontanata a tal punto dalla logica che non c’era modo di tornare indietro.
CAPITOLO QUATTRO
Quando Chloe arrivò nell’ufficio di Johnson, vide che Rhodes era già lì. Sembrava che si fosse appena seduta e si stava ancora sistemando su una delle sue famigerate scomodissime sedie per gli ospiti, dal lato opposto della scrivania. Rivolse a Chloe uno sguardo piuttosto eccitato. Chloe dovette ricordare a se stessa che, se non fosse stata invischiata fino al collo nei suoi drammi privati, sarebbe stata entusiasta di essere chiamata per quello che sembrava essere un caso prioritario.
Chloe si accomodò sull’altra sedia accanto a Rhodes. Johnson le rivolse un cenno del capo dall’altro lato della scrivania, mentre finiva di scrivere qualcosa sul suo MacBook. Con un sospiro e un’esagerata scrollata di spalle, si appoggiò allo schienale della poltrona e le guardò.
“Grazie a entrambe per essere venute così velocemente e con così poco preavviso. Abbiamo un caso in cui credo che voi due ve la cavereste egregiamente. Abbiamo due uomini uccisi nel giro di quattro giorni, entrambi nella periferia di Baltimora. Erano tutti e due uomini di mezza età, sposati. Finora, la polizia brancola nel buio. Appena il fascicolo è arrivato sulla mia scrivania, ho pensato immediatamente a voi due.”
Chloe guardò Rhodes. Sul suo viso c’era un’espressione che ricordava a Chloe un toro da rodeo che spingeva contro il cancello, aspettando che si aprisse per potersi scatenare. Questo rendeva ancora più difficile quello che stava per dire.
“Signore, temo di non poter accettare un caso, in questo momento.” Faceva male dirlo; le parole sembravano filo spinato che le usciva dalla gola.
Johnson sorrise, e non era un sorriso divertito. “Chiedo scusa?”
“Non avrei voluto che la questione si intromettesse nel mio lavoro, ma mia sorella è scomparsa, signore. Sono passate quasi 48 ore. Anche mio padre è scomparso.”
Johnson sbatté le palpebre più volte, come se volesse schiarirsi le idee. Era evidente che si stesse sforzando di capire in che modo i suoi problemi personali fossero legati al caso. Il direttore Johnson era un nobiluomo e l’aveva sempre trattata con rispetto, ma era anche il tipo di uomo che credeva fermamente che il lavoro venisse prima di tutto.
Dopo un attimo, annuì. “Lo so. Ho ricevuto una telefonata da un mio amico, un certo detective con cui credo che abbia appena parlato. Mi ha chiamato per informarmi di cosa stava accadendo, non perché lei era coinvolta, ma perché è una gentilezza che a volte mi concede, quando indaga su casi che potrebbero essere collegati al Bureau. Quindi sì...so tutto di sua sorella, di suo padre e delle poche prove trovate sulla scena.”
Chloe fu assolutamente atterrita nel sentirlo. Tanti saluti al tenere in gabbia i miei demoni personali, pensò.
“Allora mi capisce” disse Chloe.
Johnson si spostò sulla sedia, alquanto a disagio. “Quello che capisco è lei ha un interesse personale nel caso, quindi sta superando i limiti. Secondo quanto mi dice il detective Graves, c’è stata certamente una sorta di alterco nella villetta, ma sostenere che si tratti di rapimento, cosa che lei suggerisce, è un azzardo, nella migliore delle ipotesi.”
“Signore, sicuramente la penserebbe diversamente, se conoscesse tutta la storia e...”
“Invece non la conosco. Ed è per questo che mi fido di Graves e della polizia. Se viene fuori che credono ci sia qualcosa di più in gioco, me lo faranno sapere. Non possiamo trattarlo diversamente da qualsiasi altro caso di polizia, Fine.”
Chloe sentiva la rabbia montare in lei ma, allo stesso tempo, il