Ma una maledetta voce mi diceva dentro, che era là anche lui, l’estraneo, di fronte a me, nello specchio. In attesa come me, con gli occhi chiusi.
C’era, e io non lo vedevo.
Non mi vedeva neanche lui, perché aveva, come me, gli occhi chiusi. Ma in attesa di che, lui? Di vedermi? No. Egli poteva esser veduto, non vedermi. Era per me quel che io ero per gli altri, che potevo esser veduto e
non vedermi. Aprendo gli occhi però, lo avrei veduto così come un altro? Qui era il punto.
M’era accaduto tante volte d’infrontar gli occhi per caso nello specchio con qualcuno che stava a guardarmi nello specchio stesso. Io nello specchio non mi vedevo ed ero veduto; così l’altro, non si vedeva, ma vedeva il mio viso e si vedeva guardato da me. Se mi fossi sporto a vedermi anch’io nello specchio, avrei forse potuto esser visto ancora dall’altro, ma io no, non avrei più potuto vederlo. Non si può a un tempo vedersi e vedere che un altro sta a guardarci nello stesso specchio.
Stando a pensare così, sempre con gli occhi chiusi, mi domandai:
«È diverso ora il mio caso, o è lo stesso? Finché tengo gli occhi chiusi, siamo due: io qua e lui nello specchio. Debbo impedire che, aprendo gli occhi, egli diventi me e io lui. Io debbo vederlo e non essere veduto. È possibile? Subito com’io lo vedrò, egli mi vedrà, e ci riconosceremo. Ma grazie tante! Io non voglio riconoscermi; io voglio conoscere lui fuori di me. È possibile? Il mio sforzo supremo deve consistere in questo: di non vedermi in me, ma d’essere veduto da me, con gli occhi miei stessi ma come se fossi un altro: queiraltro che tutti vedono e io no. Sù, dunque, calma, arresto d’ogni vita e attenzione!».
Aprii gli occhi. Che vidi?
Niente. Mi vidi. Ero io, là, aggrondato, carico del mio stesso pensiero, con un viso molto disgustato.
M’assalì una fierissima stizza e mi sorse la tentazione di tirarmi uno sputo in faccia. Mi trattenni. Spianai le rughe; cercai di smorzare l’acume dello sguardo; ed ecco, a mano a mano che lo smorzavo, la mia immagine smoriva e quasi s’allontanava da me; ma smorivo anch’io di qua e quasi cascavo; e sentii che, seguitando, mi sarei addormentato. Mi tenni con gli occhi. Cercai d’impedire che mi sentissi anch’io tenuto da quegli occhi che mi stavano di fronte; che quegli occhi, cioè, entrassero nei miei. Non vi riuscii. Io mi sentivo quegli occhi. Me li vedevo di fronte, ma li sentivo
anche di qua, in me; li sentivo miei; non già fissi su me, ma in se stessi. E se per poco riuscivo a non sentirmeli, non li vedevo più. Ahimè, era proprio così: io potevo vedermeli, non già vederli.
Ed ecco: come compreso di questa verità che riduceva a un giuoco il mio esperimento, a un tratto il mio volto tentò nello specchio uno squallido sorriso.
– Sta’ serio, imbecille! – gli gridai allora. – Non c’è niente da ridere!
Fu così istantaneo, per la spontaneità della stizza, il cangiamento dell’espressione nella mia immagine, e così subito seguì a questo cambiamento un’attonita apatia in essa, ch’io riuscii a vedere staccato dal mio spirito imperioso il mio corpo, là, davanti a me, nello specchio.
Ah, finalmente! Eccolo là!
Chi era?
Niente era. Nessuno. Un povero corpo mortificato, in attesa che qualcuno se lo prendesse.
– Moscarda… – mormorai, dopo un lungo silenzio. Non si mosse; rimase a guardarmi attonito. Poteva anche chiamarsi altrimenti.
Era là, come un cane sperduto, senza padrone e senza nome, che uno poteva chiamarFlik, e un altro Flok, a piacere. Non conosceva nulla, né si conosceva; viveva per vivere, e non sapeva di vivere; gli batteva il cuore, e non lo sapeva; respirava, e non lo sapeva; moveva le pàlpebre, e non se n’accorgeva.
Gli guardai i capelli rossigni; la fronte immobile, dura, pallida; quelle sopracciglia ad accento circonflesso; gli occhi verdastri, quasi forati qua e là nella còrnea da macchioline giallognole; attoniti, senza sguardo; quel naso che pendeva verso destra, ma di bel taglio aquilino; i baffi
rossicci che nascondevano la bocca; il mento solido, un po’ rilevato.
Ecco: era così: lo avevano fatto così, di quel pelame; non dipendeva da lui essere altrimenti, avere un’altra statura; poteva sì alterare in parte il suo aspetto: radersi quei baffi, per esempio; ma adesso era così; col tempo sarebbe stato calvo o canuto, rugoso e floscio, sdentato; qualche sciagura avrebbe potuto anche svisarlo, fargli un occhio di vetro o una gamba di legno; ma adesso era così.
Chi era? Ero io? Ma poteva anche essere un altro! Chiunque poteva essere, quello lì. Poteva avere quei capelli rossigni, quelle sopracciglia ad accento circonflesso e quel naso che pendeva verso destra, non soltanto per me, ma anche per un altro che non fossi io. Perché dovevo esser io, questo, così?
Vivendo, io non rappresentavo a me stesso nessuna immagine di me. Perché dovevo dunque vedermi in quel corpo lì come in un’immagine di me necessaria?
Mi stava lì davanti, quasi inesistente, come un’apparizione di sogno, quell’immagine. E io potevo benissimo non conoscermi così. Se non mi fossi mai veduto in uno specchio, per esempio? Non avrei forse per questo seguitato ad avere dentro quella testa lì sconosciuta i miei stessi pensieri? Ma sì, e tant’altri. Che avevano da vedere i miei pensieri con quei capelli, di quel colore, i quali avrebbero potuto non esserci più o essere bianchi o neri o biondi; e con quegli occhi lì verdastri, che avrebbero potuto anche essere neri o azzurri; e con quel naso che avrebbe potuto essere diritto o camuso? Potevo benissimo sentire anche una profonda antipatia per quel corpo lì; e la sentivo.
Eppure, io ero per tutti, sommariamente, quei capelli rossigni, quegli occhi verdastri e quel naso; tutto quel corpo lì che per me era niente; eccolo: niente!
Ciascuno se lo poteva prendere, quel corpo lì, per farsene quel Moscarda che gli pareva e piaceva, oggi in un modo e domani in un altro,
secondo i casi e gli umori. E anch’io… Ma sì! Lo conoscevo io forse? Che potevo conoscere di lui? Il momento in cui lo fissavo, e basta. Se non mi volevo o non mi sentivo così come mi vedevo, colui era anche per me un estraneo, che aveva quelle fattezze, ma avrebbe potuto averne anche altre. Passato il momento in cui lo fissavo, egli era già un altro; tanto vero che non era più qual era stato da ragazzo, e non era ancora quale sarebbe stato da vecchio; e io oggi cercavo di riconoscerlo in quello di jeri, e così via. E in quella testa lì, immobile e dura, potevo mettere tutti i pensieri che volevo, accendere le più svariate visioni: ecco: d’un bosco che nereggiava placido e misterioso sotto il lume delle stelle; di una rada solitaria, malata di nebbia, da cui salpava lenta spettrale una nave all’alba; d’una via cittadina brulicante di vita sotto un nembo sfolgorante di sole che accendeva di riflessi purpurei i volti e faceva guizzar di luci variopinte i vetri delle finestre, gli specchi, i cristalli delle botteghe. Spengevo a un tratto la visione, e quella testa restava lì di nuovo immobile e dura, nell’apatico attonimento.
Chi era colui? Nessuno. Un povero corpo, senza nome, in attesa che qualcuno se lo prendesse.
Ma, all’improvviso, mentre così pensavo, avvenne tal cosa che mi riempì di spavento più che di stupore.
Vidi davanti a me, non per mia volontà, l’apatica attonita faccia di quel povero corpo mortificato scomporsi pietosamente, arricciare il naso, arrovesciare gli occhi all’indietro, contrarre le labbra in sù e provarsi ad aggrottar le ciglia, come per piangere; restare così un attimo sospeso e poi crollar due volte a scatto per lo scoppio d’una coppia di sternuti.
S’era commosso da sé, per conto suo, a un filo d’aria entrato chi sa donde, quel povero corpo mortificato, senza dirmene nulla e fuori della mia volontà.
– Salute! – gli dissi. E guardai nello specchio il mio primo riso da matto.
VIII. E dunque?
Dunque, niente: questo. Se vi par poco! Ecco una prima lista delle riflessioni rovinose