Proprio allora, Keira notò qualcuno che usciva dalla toilette e si dirigeva verso di loro. Era basso, rotondetto, sciatto, vestito male, con una maglietta grigia tutta macchiata e jeans della taglia sbagliata, e i pochi capelli che gli rimanevano in testa sembravano un nido di uccelli. Desiderò con tutte le sue forze che la oltrepassasse, ma capì, con sua grande delusione, che era proprio diretto lì.
Il bell’uomo con il cartello lo vide. Non appena li ebbe raggiunti, gli restituì il cartello e si affrettò verso una ragazza bellissima che era appena arrivata nella sala d’aspetto. I due partirono subito con le effusioni in luogo pubblico.
“Giovani innamorati, eh?” commentò la guida, grattandosi la striscia di pelle che la maglietta non riusciva a coprire del tutto. “Sei Karla?”
“Keira?”
L’uomo rilesse il cartello e scrollò le spalle. “I nomi americani mi sembrano tutti uguali.”
Mentre parlava, dalla sua bocca emerse una zaffata di cipolla e caffè, che nauseò la giornalista.
“Andiamo,” le ordinò. “L’auto è da questa parte.”
Si voltò e si avviò in gran fretta, sparendo tra la folla di gente e lasciando Keira ad annaspare nel bel mezzo dell’aeroporto. Afferrò la valigia e cercò freneticamente l’indicazione per l’uscita.
La trovò, insieme alla nuca della sua guida che attraversava rapidamente la porta. Non si era nemmeno girato per controllare che fosse ancora insieme a lui!
Con una smorfia, Keira seguì quell’uomo sciatto, tirandosi dietro la pesante valigia.
Mentre la folla la spintonava, la sua eccitazione alla prospettiva che una storia d’amore in Italia le curasse il cuore ferito svanì completamente. Invece di essere conquistata da un uomo affascinante, avrebbe dovuto sopportare l’alito alla cipolla e la scortesia della sua guida turistica.
Altro che Romeo, pensò con un peso sul cuore.
CAPITOLO SETTE
“Lo sai che sei in ritardo?” disse Antonio, la guida turistica, mentre le faceva strada attraverso il parcheggio. Le rughe sulla sua fronte erano tanto profonde che sembrava le stesse tenendo il muso.
“Ci hanno messo un po’ a restituirmi la valigia,” rispose Keira, ancora turbata dall’annichilamento delle sue speranze di incontrare un Romeo.
Antonio la metteva estremamente a disagio con la sua presenza, e non solo per via del ventre rotondo e peloso che sporgeva dalla vita dei pantaloni. Aveva un atteggiamento severo, come quello di un maestro di scuola che sapeva già di non poter accontentare.
L’aria era calda, quasi in maniera oppressiva, ma non sembrava rallentarlo. Camminavano in fretta, Antonio sempre un paio di passi davanti a lei, che faticava a trascinare la valigia. Era già tutta sudata.
“Ho la schiena malandata,” disse lui, come per spiegare perché non la stesse aiutando.
Durante il percorso, Antonio chiacchierò, un’unica ondata impetuosa e rapida di parole, con una voce come il ringhio di un cane feroce. Keira ripensò al Romeo del sogno. Antonio non avrebbe potuto essere più diverso di così!
“Ventun giorni, eh?” stava dicendo, avanzando a grandi passi, costringendo Keira a correre per tenergli dietro.
Un periodo che già la riempiva di panico.
Nel frattempo l’aveva condotta fino a un’auto. Keira si era aspettata una bella vettura, ma invece si trovò davanti a un veicolo vecchio, minuscolo e tutto arrugginito.
“È questa?” domandò.
“Non c’è spazio per la valigia nei sedili di dietro. Mettile nel bagagliaio,” ordinò Antonio.
Keira lo aprì e così facendo scoprì che l’auto era piena di borse della spesa. Quando infilò la valigia vicino alla spesa di Antonio, fu assalita da un effluvio di formaggio puzzolente. Una delle buste si era aperta e ne rotolò fuori una forma di pecorino. Keira la rimise al suo posto, rendendosi conto con un mix di sorpresa, curiosità e disgusto che tutte le borse erano piene dello stesso formaggio. Antonio mangiava solo quello? si domandò. Poi capì anche che quell’odore avrebbe invaso la sua valigia e avrebbe permeato tutti i suoi vestiti. Avrebbe puzzato di formaggio per le successive tre settimane!
Arricciò il naso e chiuse il bagagliaio. Nel frattempo Antonio avviò il motore dell’auto, sputacchiandole una nube di fumo di scarico sulle gambe.
Irritata, Keira si sedette davanti insieme a lui, scoprendo che erano tanto vicini che le loro ginocchia si toccavano. Fissò le mani sudaticce e pelose di Antonio strette sul volante. L’odore all’interno dell’auto era una combinazione di formaggio, sudore e aria umida.
Prima ancora che avesse il tempo di mettersi la cintura, Antonio partì a tutta velocità. L’auto sobbalzò in avanti e mentre l’uomo si immetteva in strada lei strinse i lati del sedile tra le mani, con tanta forza da sbiancarsi le nocche. Antonio guidava come un pazzo.
“Quindi racconta, New York,” disse lui. “Un postaccio, eh? Molti crimini?”
Keira lo fissò, sbalordita. “No. Voglio dire, non esattamente. Ha i suoi problemi, come ogni città, ma è bellissima.”
“Ma fa freddo, no?” insistette Antonio. A Keira sembrò che stesse cercando di trovare il peggio nella sua città natale. “Tipo adesso è freddo. Mentre noi ci godiamo ancora un bel sole.” Emise una risata ansimante, mettendo in mostra denti gialli e storti.
“Ci sei mai stato?” chiese lei, un po’ offesa dal commento.
“No no no,” rispose Antonio, scuotendo la testa come se la sola idea fosse ridicola. “Non andrò mai in una città senza dio come quella. Qui siamo buoni cattolici.”
Se Antonio aveva avuto l’intenzione di irritare Keira, c’era sicuramente riuscito.
Ma se la guida turistica era stata uno shock per lei, neanche Napoli era quello che Keira si era aspettata. La strade erano molto strette, circondate da alti palazzi a cinque piani su entrambi i lati, con balconi in metallo arrugginito e fili appesi tra di loro coperti di vestiti colorati stesi ad asciugare che ondeggiavano al vento. Praticamente non c’erano marciapiedi, che significava che la gente camminava in strada, spesso senza guardare, apparendo da dietro auto parcheggiate. Keira notò che persino i segnali stradali e i lampioni erano attaccati alle mura delle case, dato che non c’era lo spazio per i pali.
Tuttavia nessuno di quegli ostacoli convinceva Antonio a guidare più lentamente. Si limitava a imprecare in italiano ad alta voce ogni volta che qualcuno gli si parava davanti, evitandoli e a volte strombazzandogli con il clacson.
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