“Tutti quelli che avrebbero dovuto venire,” rispose Angelica.
“Quelli che non ci sono, si possono considerare traditori,” disse seccamente Rupert. “Li farò trovare e uccidere.”
“Certo,” rispose Angelica, “dopo l’invasione però.”
Gli pareva strano aver trovato qualcuno che fosse così prontamente d’accordo con tutte le cose che si dovevano fare. A suo modo era spietata quanto lui, bella e intelligente. Anche lei era lì per questo, in piedi accanto a lui con l’abilità di far apparire squisito il suo abito nero, pronta a sostenere Rupert mentre avanzava nel tempio, verso il punto in cui si trovava la bara di sua madre, in attesa di essere sotterrata, la corona posta al di sopra.
Un coro iniziò a cantare un requiem mentre loro avanzavano, e l’alta sacerdotessa innalzò le sue preghiere alla dea. Niente di tutto ciò era originale. Non ce n’era stato il tempo. Lo stesso Rupert voleva assoldare un compositore non appena tutto questo fosse finito. Avrebbe fatto costruire statue per sua madre. Avrebbe…
“Ci siamo,” disse Angelica, guidandolo verso il suo posto a sedere, in prima fila. C’era posto a sufficienza lì, nonostante la folla presente nell’edificio. Forse i guardiani che si trovavano lì centravano qualcosa.
“Siamo qui riuniti per fare da testimoni alla morte di una grande figura tra noi,” disse l’alta sacerdotessa quando Rupert ebbe preso posto. “La vedova regina Mary della Casata di Flamberg è andata dietro alla maschera della morte, tra le braccia della dea. Piangiamo la sua morte.”
Rupert la piangeva, il dolore saliva in lui mentre la sacerdotessa parlava di come sua madre fosse stata una grande sovrana, di quanto fosse stato importante il suo ruolo nell’unire il regno. L’anziana sacerdotessa fece un lungo sermone sulle virtù che si trovavano nei testi sacri e che sua madre aveva incarnato, poi uomini e donne iniziarono a farsi avanti per parlare della sua grandezza, della sua cortesia, della sua umiltà.
“È come se stessero parlando di qualcun altro,” sussurrò Rupert ad Angelica.
“È il genere di cose che ci si aspetta dicano a un funerale,” rispose lei.
Rupert scosse la testa. “No, non è giusto. Non è giusto.”
Si alzò e andò davanti a tutti, senza curarsi di qualche signore già impegnato nel parlare di quella volta che aveva conosciuto la vedova e intessendo il racconto con grandi elogi. L’uomo si fece indietro e rimase in silenzio quando Rupert si avvicinò.
“State tutti dicendo delle sciocchezze,” disse Rupert, la voce che usciva facilmente. “State parlando di mia madre e ignorate chi fosse veramente! Dite che era buona, e gentile, e generosa? Non era niente di queste cose! Era dura. Era spietata. Sapeva essere crudele.” Fece un gesto con la mano indicando i presenti. “C’è qui qualcuno a cui non abbia fatto del male? A me ne ha fatto abbastanza. Mi trattava come se non fossi minimamente degno di essere neanche suo figlio.”
Poté sentire i sussurri tra la gente presente. Che sussurrassero. Lui era il loro re ora. Quello che pensavano non contava.
“Però era forte,” disse. “È grazie a lei se avete un paese. Grazie a lei se i traditori di questa terra sono stati cacciati, e la loro magia soppressa.”
Gli venne in mente un pensiero.
“Io sarò ugualmente forte. Farò quello che serve fare.”
Andò alla bara e prese la corona. Pensò a quello che Angelica aveva detto dell’Assemblea dei Nobili, come se lui avesse bisogno del loro permesso. La prese e se la mise in testa, ignorando i sussulti dei presenti.
“Seppelliremo mia madre come la persona che era,” disse Rupert, “non secondo le vostre bugie! Lo ordino, in quanto vostro re!”
Angelica corse da lui e gli prese la mano. “Rupert, stai bene?”
“Sto bene,” rispose di scatto. Un altro impulso lo travolse mentre guardava la folla. “Conoscete tutti Milady d’Angelica,” disse. “Bene, ho un annuncio per voi. Questa sera la prenderò in moglie. Siete tutti tenuti a partecipare. Chiunque non lo faccia, verrà impiccato.”
Questa volta non ci fu nessun sussulto. Forse perché non potevano essere più scioccati di così. Forse avevano già capito tutto. Rupert si avvicinò alla bara.
“Ecco, madre,” disse. “Ho la tua corona. Mi sto per sposare e domani salverò il tuo regno. Ti basta? Sì?”
Parte di Rupert si aspettava una risposta, un segno. Non ci fu nulla. Nient’altro che il silenzio della folla che guardava, e il profondo senso di colpa che in qualche modo ancora si insinuava sempre più a fondo in lui.
CAPITOLO SEI
Dal balcone di una casa a Carrick, il Maestro dei Corvi guardava i suoi eserciti che si riunivano, osservandoli attraverso gli occhi delle sue creature. Sorrideva tra sé e sé nel frattempo, pervaso da un senso di soddisfazione.
“I pezzi sono al loro posto,” disse mentre i suoi corvi gli mostravano le navi in raccolta, i difensori che accorrevano a costruire barricate. “Ora è giunto il momento di guardarli cadere.”
Il tramonto color sangue andava a braccetto con il suo umore oggi, come anche le grida che provenivano dal cortile sotto al suo balcone. Le esecuzioni del giorno stavano procedendo a ritmo serrato: due uomini continuavano a tentare di fuggire, un potenziale ladro e una moglie che aveva pugnalato suo marito. Stavano legati a dei pali mentre gli aguzzini lavoravano con spade e funi per strangolare.
I corvi discesero su di loro. C’era probabilmente chi credeva che lui godesse della violenza di quei momenti. La verità era che non gli importava proprio. La cosa che contava era solo il potere che tali morti gli portavano attraverso i suoi animali.
Il Maestro dei Corvi si guardò attorno osservando i comandanti che aspettavano istruzioni da lui, vedendo se qualcuno tremasse o distogliesse lo sguardo dalle scene sottostanti. La maggior parte non lo fece, perché avevano imparato ciò che li aspettava. Un giovane ufficiale però deglutì mentre guardava. Probabilmente avrebbe dovuto tenerlo d’occhio.
Per un momento o due il Maestro dei Corvi riportò la sua attenzione alle creature che sorvolavano Ashton. Mentre ruotavano e sfrecciavano, gli mostravano la distesa della flotta in avanzata, la forza distaccata che cercava di approdare più lontano lungo la costa. Un corvo su un muro gli mostrò un gruppo di uomini di Ishjemme con abiti da mercanti che aprivano un baule nascosto pieno di armi vicino al fiume. Una cornacchia vicino al cimitero della città udì degli uomini che parlavano di ritirarsi quando fosse sopraggiunto l’attacco, lasciando che i nobili si arrangiassero.
Sembrava una combinazione che avrebbe lasciato le sue bestiole a becco asciutto. Non poteva permetterlo.
“Abbiamo un compito da eseguire,” disse agli uomini che aspettavano quando ebbe riportato la sua attenzione a se stesso. “Seguitemi.”
Li condusse giù attraverso la casa, dando per scontato che gli altri lo stessero seguendo. I servitori si facevano da parte, felici di non essere in mezzo ai piedi mentre così tante persone potenti scendevano. Il Maestro dei Corvi poteva percepire il loro risentimento e la loro paura, ma non aveva importanza. Era solo l’inevitabile conseguenza del governare.
Nel cortile, le grida erano svanite tramutandosi in quel silenzio che solo la morte poteva portare. Anche la più silenziosa delle creature viventi portava con sé il minimo suono della respirazione, o la vibrazione di un cuore che batteva. Ora solo il gracchiare dei corvi spezzava il silenzio mentre i corpi pendevano inermi dai pali.
“Bisogna mantenere l’ordine,” disse il Maestro dei Corvi guardando verso l’ufficiale che aveva mostrato un accenno di disgusto. “Siamo una macchina composta di molti pezzi, e ciascuna parte deve giocare il suo ruolo. Ora che sono usciti dai loro confini, il ruolo di questi tre è di nutrire gli uccelli spazzini.”
Quelli stavano volando in grossi numeri ora,