“Giace scomoda la testa che indossa la corona.”
—William Shakespeare
Enrico IV, Parte II
CAPITOLO UNO
Il ragazzo se ne stava in piedi sul poggio più elevato della Landa Inferiore, nel Regno Occidentale dell’Anello, e guardava verso nord, osservando il primo dei soli che sorgeva. Fin dove giungeva il suo sguardo non si vedeva che una distesa ondeggiante di verdi colline, simili alle gobbe di un cammello, che salivano e scendevano in un susseguirsi di valli e picchi. L’arancio dei raggi del primo sole indugiava nella bruma mattutina facendo brillare quei promontori e donando alla luce una magia che combaciava con lo stato d’animo del giovane.
Raramente si alzava così presto, né era solito allontanarsi così tanto da casa; e mai era salito così in alto, ben sapendo che ciò avrebbe suscitato la collera di suo padre. Ma quel giorno non gli importava. Quel giorno non aveva intenzione di curarsi di quel milione di regole ed incombenze che l’avevano oppresso nei suoi quattordici anni di vita. Perché quel giorno era diverso. Quel giorno si sarebbe potuto compiere il suo destino.
Il ragazzo, Thorgrin del Regno Occidentale della Provincia del Sud del clan McLeod, da tutti conosciuto semplicemente come Thor – il più giovane di quattro fratelli, il meno favorito di suo padre – aveva vegliato tutta la notte, in attesa di quel giorno. Si era girato e rigirato, con lo sguardo offuscato, nell’attesa, nel desiderio che il primo sole sorgesse. Perché un giorno come quello arrivava solo una volta nel giro di molti anni, e se avesse perso quell’occasione, sarebbe rimasto in quel villaggio, condannato ad occuparsi del gregge di suo padre, per il resto dei suoi giorni. Il solo pensiero gli era intollerabile.
Giorno della Coscrizione. Era il giorno in cui l’Esercito del Re attraversava le province e raccoglieva volontari per la Legione del Re. Per tutta la sua vita Thor non aveva sognato altro. La vita significava per lui una sola cosa: far parte dell’Argento, l’elite di cavalieri del re, adorni delle migliori armature e dotati di armi di prima scelta ovunque nei due regni. Nessuno poteva accedere all’Argento se prima non aveva fatto parte della Legione, la compagnia di scudieri dai quattordici ai diciannove anni. E non vi era altro modo di accedere alla Legione se non essere figli di un nobile o di un valoroso guerriero.
Il Giorno della Coscrizione era l’unica eccezione, un evento raro che capitava a distanza di anni, quando la Legione era a corto di componenti e gli uomini del re pattugliavano il territorio a caccia di nuove reclute. Tutti sapevano che solo pochi cittadini comuni sarebbero stati scelti, e che ancora meno sarebbero stati quelli effettivamente ammessi a far parte della Legione.
Thor se ne stava lì, ad osservare assorto l’orizzonte, in attesa di un minimo segno di movimento. L’Argento, lo sapeva, sarebbe passato per di lì – l’unica strada che conduceva al suo villaggio – e voleva essere il primo ad avvistarli. Nel gregge raccolto attorno a lui, le pecore protestavano emettendo un coro di fastidiosi belati, nel tentativo di sollecitarlo a riportarle a valle, dove il pascolo era migliore. Thor cercava di non pensare al rumore, e alla puzza. Doveva concentrarsi.
Ciò che gli aveva permesso di sopportare tutto questo – tutti quegli anni a prendersi cura del gregge, a fare da servo a suo padre e ai suoi fratelli più grandi, ad essere quello che riceveva le minori attenzioni e il maggior carico di lavoro – era l’idea che un giorno avrebbe abbandonato quel luogo. Un giorno, quando l’Argento fosse giunto, lui avrebbe sorpreso tutti quelli che l’avevano sottovalutato e sarebbe stato selezionato. Con un unico repentino gesto sarebbe salito sulla loro carrozza e avrebbe detto addio a tutto questo.
Il padre di Thor, ovviamente, non l’aveva mai preso in considerazione come possibile candidato per la Legione; a dire il vero non l’aveva mai considerato come possibile candidato per alcunché. Al contrario, suo padre riservava tutto il suo affetto e le sue attenzioni ai tre fratelli maggiori di Thor. Il primogenito aveva diciannove anni e gli altri venivano in successione con solo un anno di differenza, mentre Thor era ben tre anni più giovane di loro. Probabilmente perché più vicini di età tra di loro, o forse perché si assomigliavano ed erano tutti completamente diversi da Thor, i tre stavano sempre insieme, a malapena consapevoli dell’esistenza del fratello minore.
Quel che era peggio, erano più alti e robusti e forti di lui, e Thor, che sapeva di non essere basso, ciononostante si sentiva piccolo accanto a loro: aveva la sensazione che i muscoli delle sue gambe fossero deboli in confronto alle loro, che sembravano barili di quercia. Il padre non faceva niente per bilanciare la situazione, niente di ciò, piuttosto sembrava goderne lasciando che Thor si occupasse delle pecore e affilasse le armi, mentre i suoi fratelli potevano allenarsi. Non era mai stato espressamente detto, ma era implicito che Thor avrebbe trascorso tutta la sua vita dietro le quinte, costretto a guardare i suoi fratelli che compivano grandi imprese. Il suo destino, se fosse stato per suo padre e i suoi fratelli, era di rimanere lì, inghiottito da quel villaggio, a dare alla propria famiglia il sostegno che richiedeva.
Ancora peggiore era il fatto che Thor percepiva che i suoi fratelli, paradossalmente, si sentivano minacciati da lui, forse addirittura lo odiavano. Thor poteva scorgerlo in ogni loro sguardo, in ogni gesto. Non capiva come, ma era in grado di suscitare in loro una sorta di paura o gelosia. Forse perché era diverso da loro, non gli assomigliava e non parlava con i loro vezzi; non si vestiva neanche come loro, dato che il padre riservava il meglio – indumenti viola e scarlatti, armi dorate - per i suoi fratelli, mentre a Thor venivano lasciati gli stracci più grezzi.
Ciononostante, Thor faceva del suo meglio con ciò che aveva, trovando un modo per rendere adatti i suoi abiti: legava la tunica con una fascia attorno alla vita e, ora che era giunta l’estate, aveva tagliato le maniche cosicché le sue braccia sode potessero essere carezzate dall’aria. A questo si abbinava un paio di pantaloni di lino sgualciti, l’unico paio che aveva, e stivali fabbricati con la pelle più scadente e stretti agli stinchi. Non avevano niente a che vedere con la pelle di quelli indossati dai suoi fratelli, ma lui li faceva andare bene. Indossava la tipica uniforme da pastore, ma ne mostrava a malapena l’atteggiamento. Thor era alto e slanciato, la mascella fiera, il mento nobile, zigomi alti e occhi grigi, come un guerriero fuori posto. I suoi capelli dritti e castani formavano delle onde sulla testa, terminando giusto dietro le orecchie, e i suoi occhi luccicavano come fanno certi pesci quando guizzano sotto la luce.
I fratelli di Thor avrebbero avuto il permesso di dormire quella mattina, avrebbero ricevuto un pasto sostanzioso e sarebbero stati mandati alla selezione con le armi più belle e la benedizione di loro padre, mentre a lui non sarebbe stato neanche consentito di partecipare. Aveva tentato di sollevare il discorso una volta con suo padre. Non era andata bene. Il padre aveva sommariamente messo fine alla conversazione, e lui non ci aveva più riprovato. Non era giusto.
Thor era determinato a rifiutare il destino che suo padre aveva definito per lui: non appena la carrozza reale fosse comparsa, sarebbe corso di nuovo a casa, avrebbe affrontato suo padre e, che gli piacesse o no, si sarebbe presentato agli Uomini del Re. Avrebbe partecipato alla selezione come tutti gli altri. Suo padre non poteva fermarlo. Avvertì un nodo nello stomaco al pensiero.
Il primo sole saliva, e quando anche il secondo sole iniziò a sorgere, nel suo bagliore verde menta, aggiungendo un strato di luce nuova al cielo viola, Thor li scorse.
Rimase lì in piedi, con la pelle d’oca, completamente elettrizzato. Laggiù, all’orizzonte, avanzava la sagoma sfuocata di una carrozza trainata