Come sempre da quando era partito, la rabbia portò con sé immagini di sangue e pietra. Il sangue di suo padre che macchiava la pietra della statua del suo antenato.
Quello con cui mi hai ucciso.
Lucio lo fissò, anche se la voce era stata lì, chiara come il cielo di mattina, profonda come la colpa fin da quando aveva dato il primo colpo. Lucio non credeva nei fantasmi, ma il ricordo della voce di suo padre era ancora lì e gli rispondeva ogni volta che cercava di pensare. Sì, era solo la sua mente che gli giocava degli scherzi, ma la cosa non era per niente migliorata. Significava che addirittura i suoi stessi pensieri non facevano come lui desiderava.
Niente pareva farlo al momento. Il capitano della barca su cui aveva trovato un passaggio lo aveva accolto borbottando, come se non fosse un onore avere Lucio a bordo con sé per quel viaggio. I suoi uomini trattavano Lucio con disprezzo, come un comune criminale che fuggiva dalla giustizia, piuttosto che come un corretto governatore dell’Impero, usurpato del suo trono.
Del trono di Tano.
“Non il trono di Tano,” disse Lucio parlando con l’aria. “Il mio.”
“Hai detto qualcosa…?” chiese il marinaio senza neanche curarsi di girarsi.
Lucio si allontanò e diede un pugno pieno di risentimento al legno dell’albero maestro, ma questo non fece che procurargli un forte dolore alle nocche che rimasero spellate. Se avesse potuto fare come era solito, avrebbe fatto scuoiare vivi anche uno o due uomini della ciurma.
Eppure Lucio teneva le distanze da loro, mantenendosi nella parte vuota del ponte dove gli era stato detto che poteva andare, come se fosse un uomo comune a cui dover dire dove andare. Come se non potesse lui stesso reclamare la proprietà di ogni singolo vascello dell’Impero se avesse voluto.
Ma il capitano della barca aveva fatto proprio così. Aveva lasciato Lucio con chiare istruzioni di stare lontano dalla ciurma mentre lavoravano, e di non causare guai.
“Altrimenti ti troverai dall’altra parte del parapetto e ci dovrai andare a nuoto a Cadipolvere,” aveva detto l’uomo.
Forse avresti dovuto ucciderlo come hai fatto con me.
“Non sono matto,” disse Lucio a se stesso. “Non sono matto.”
Non lo avrebbe permesso, come non avrebbe permesso agli uomini di continuare a parlargli come se non contasse nulla. Poteva ancora ricordare il freddo stato di rabbia in cui si era trovato quando aveva colpito suo padre, sentendo il peso della statua in mano, scagliandola perché era l’unico modo di mantenere il possesso di ciò che era suo.
“Sei stato tu a farmelo fare,” mormorò Lucio. “Non mi hai lasciato scelta.”
Proprio come sono certo che nessuna delle tue vittime ti abbia lasciato scelta, rispose la sua voce interna. Quanti ne hai uccisi fino ad ora?
“Cosa importa?” chiese Lucio. Andò a grandi passi fino al parapetto e gridò contro le onde ruggenti. “Non importa!”
“Stai zitto, moccioso, stiamo cercando di lavorare qui!” gridò il capitano della nave da dove si trovava il timone.
Non riesci a fare la cosa giusta neanche in mezzo all’oceano, disse la voce dentro di sé.
“Taci,” disse Lucio seccamente. “Taci!”
“Come osi parlarmi così, ragazzo?” chiese il capitano, scendendo sul ponte per confrontarsi con lui. L’uomo era più robusto di Lucio, e in condizioni normali la paura sarebbe scorsa in lui. Ma adesso non c’era spazio, perché i ricordi la spingevano fuori! Ricordi di violenze. Ricordi di sangue. “Io sono il capitano di questo vascello!”
“E io sono un re!” ribatté Lucio tirando un pugno inteso a colpire la mascella dell’altro uomo per spingerlo indietro. Non aveva mai creduto nel combattimento corretto.
Il capitano invece si fece indietro e schivò il colpo con facilità. Lucio scivolò sul ponte umido e in quel momento un altro uomo gli diede un ceffone.
Gli diede un ceffone! Come se fosse una qualsiasi sgualdrina che aveva parlato a sproposito, non un guerriero con cui valesse la pena parlare. Non un principe!
Ma il colpo bastò comunque per farlo crollare a terra e Lucio emise un piccolo grido di rabbia.
Meglio che tu stia giù, ragazzo, gli sussurrò la voce di suo padre.
“Taci!”
Portò la mano sotto alla camicia, alla ricerca del coltello che teneva nascosto lì. Fu in quel momento che il capitano Arvan gli diede un calcio.
Il primo colpo lo prese allo stomaco, abbastanza forte da farlo rotolare dalle ginocchia alla schiena. Il secondo colpì la testa, e bastò a fargli vedere le stelle. Non fece nulla per mettere a tacere la voce di suo padre.
Chiamati guerriero. So che sai fare di meglio.
Facile a dirsi quando non era lui ad essere picchiato a morte sul ponte di una nave.
“Pensi di potermi accoltellare, ragazzo?” chiese il capitano Arvan. “Venderei la tua carcassa se pensassi che qualcuno pagherebbe per averla. Ma dati i fatti, ti getteremo in mare e vedremo se anche gli squali arricceranno il naso!” Ci fu una pausa, inframmezzata da un altro calcio. “Voi due, prendetelo. Stiamo a vedere come galleggia bene la gente di corte.”
“Io sono un re!” si lamentò Lucio mentre delle forti mani iniziavano a tirarlo su. “Un re!”
E presto sarai un ex-re, continuò la voce di suo padre.
Lucio si sentì privo di peso mentre gli uomini lo sollevavano abbastanza in alto da fargli vedere l’acqua infinita attorno a loro, nella quale presto sarebbe stato gettato per annegare. Eccetto il fatto che non era infinita, giusto? Poteva vedere…
“Terra a dritta!” gridò la vedetta.
Per un momento la tensione tenne, e Lucio fu certo che l’avrebbero comunque gettato in mare.
La voce del capitano Arvan tuonò sopra a tutto il fragore.
“Lasciate andare quel regale spreco di fiato. Abbiamo tutti dei compiti da eseguire, e molto presto ci sbarazzeremo di lui.”
I marinai non discussero. Gettarono invece Lucio sul ponte, lasciandolo per andare a sistemare le funi con il resto dell’equipaggio.
Dovresti essere riconoscente, sussurrò la voce di suo padre.
Lucio era tutt’altro che riconoscente però. Invece aggiunse mentalmente quella nave e la sua ciurma alla lista di coloro che l’avrebbero pagata non appena lui avesse riavuto indietro il suo trono. Li avrebbe visti bruciare.
Li avrebbe visti bruciare tutti.
CAPITOLO CINQUE
Tano stava seduto nella sua gabbia e aspettava la morte. Ruotava e si girava sotto al sole di Delo, cucinandosi lentamente mentre dall’altra parte del cortile le guardie lavoravano per costruire le forche sulle quali sarebbe morto. Tano non si era mai sentito così inerme.
Né così assetato. Lo avevano ignorato e non gli avevano dato niente da mangiare né da bere, dirigendo verso di lui la loro attenzione solo quando volevano far vibrare le spade contro le sbarre della gogna, importunandolo.
I servitori si affrettavano avanti e indietro nel cortile, con un senso di urgenza nelle loro faccende che suggeriva che nel castello stesse accadendo qualcosa. Tano non sapeva di cosa si trattasse. O forse era solo il modo in cui le cose accadevano come conseguenza della morte del re. Forse tutta quella frenesia era semplicemente dovuta alla regina Atena che faceva andare Delo nel modo che meglio gradiva.
Tano poteva immaginarsi la regina farlo. Mentre qualcun altro sarebbe rimasto chiuso nel suo dolore, quasi incapace di agire, Tano poteva immaginare la donna che vedeva la morte di suo marito come un’opportunità.