Finalmente, la Deputata Hazel Webber entrò nella stanza.
Era una donna alta, magra ma imponente. Sembrava troppo giovane per essere stata al Congresso, per tutti gli anni che Riley ricordava, e anche per avere una figlia in età da college. Una certa rigidità intorno agli occhi poteva essere abituale o indotta dal Botox, o da entrambi.
Riley ricordò di averla vista in televisione. Normalmente, quando incontrava qualcuno che aveva visto sul piccolo schermo, era colpita da quanto apparisse diverso nella vita reale. Stranamente, Hazel Webber appariva esattamente uguale. Come se fosse davvero a due dimensioni, un essere umano innaturalmente superficiale in ogni modo possibile.
Anche il suo outfit disorientava Riley. Perché indossava una giacca sul maglioncino? La casa era certamente abbastanza calda.
Immagino che faccia parte del suo stile, Riley pensò.
La giacca le conferiva un aspetto più formale e professionale, rispetto a un paio di pantaloni e un maglione. Forse, rappresentava anche una sorta di armatura, una protezione contro qualsiasi autentico contatto umano.
Riley si alzò per presentarsi, ma fu la Webber a parlare.
“Agente Riley Paige, BAU” disse. “Lo so.”
Senza aggiungere un’altra parola, si sedette alla sua scrivania.
“Che cosa è venuta a dirmi?” la deputata domandò.
Riley fu assalita da un senso di allarme. Naturalmente, non aveva nulla da dirle. Tutta la sua visita era un bluff, e la Webber le apparve improvvisamente come il tipo di donna che non si faceva facilmente ingannare. Riley non riusciva a comprenderla, ma doveva portare acqua al proprio mulino, in ogni modo.
“In realtà sono qui per chiederle delle informazioni” Riley disse. “Suo marito è in casa?”
“Sì” la donna rispose.
“Sarebbe possibile parlare con entrambi?”
“Lui sa che lei è qui.”
Non aver ricevuto alcuna risposta disarmò Riley, che nascose l’imbarazzo reggendo lo sguardo fisso della sua interlocutrice, con i suoi freddi occhi blu. Riley non sussultò. Si limitò a ricambiare quello sguardo, preparandosi ad una subdola battaglia di forze di volontà.
Riley disse: “L’Unità di Analisi Comportamentale sta indagando su un insolito numero di apparenti suicidi avvenuti al Byars College.”
“Apparenti suicidi?” la Webber ripeté, inarcando un sopracciglio. “Mi sembra difficile descrivere il suicidio di Deanna come ‘apparente’. A me e mio marito è sembrato alquanto reale.”
A Riley parve che la temperatura nella stanza si fosse abbassata di qualche grado. La Webber non aveva mostrato alcun segno di emozione neppure parlando del suicidio della sua stessa figlia.
Ha acqua ghiacciata nelle vene, pensò Riley.
“Vorrei che mi raccontasse quello che è accaduto” Riley disse.
“Perché? Sono sicura che lei abbia letto il rapporto.”
Naturalmente, Riley non aveva fatto nulla del genere. Ma doveva continuare a fingere.
“Sarebbe utile se potessi sentire tutto direttamente da lei” ribatté.
La Webber rimase silenziosa per un istante. Il suo sguardo era risoluto. Ma era così anche per Riley.
“Deanna si è ferita in un incidente a cavallo l’estate scorsa” la deputata disse. “Si è fratturata gravemente un’anca. Sembrava che necessitasse di una sostituzione. Non avrebbe più potuto competere nelle gare. Era distrutta.”
La Webber fece una pausa per un istante.
“Assumeva ossicodone per il dolore. Si è procurata un’overdose, di proposito. E’ stato intenzionale, ed è tutto.”
Riley sentiva che c’era qualcosa che non le stava dicendo.
“Dov’è successo?” chiese.
“In camera sua” la Webber rispose. “Era nel suo letto. Il coroner ha detto che è morta per un arresto respiratorio. Sembrava che fosse addormentata, quando la cameriera l’ha trovata.”
A quel punto, la Webber sbatté le palpebre.
Lo fece, letteralmente.
Aveva vacillato nella loro battaglia di forze di volontà.
Sta mentendo! Riley comprese e il battito del suo cuore accelerò.
Ora doveva davvero applicare la pressione, sondando esattamente le domande giuste.
Ma prima che Riley potesse anche solo pensare alla domanda da fare, la porta dell’ufficio si aprì. La donna che aveva accompagnato lì Riley entrò.
“Deputata, dovrei parlarle” disse.
La Webber sembrò sollevata, mentre si alzava dalla scrivania e seguiva l’assistente fuori dalla porta.
Riley prese dei respiri lunghi e lenti.
Quell’interruzione non ci voleva.
Era sicura che stava per penetrare nella facciata ingannevole di Hazel Webber.
Ma aveva perso la sua occasione.
Quando la Webber sarebbe tornata, Riley avrebbe ripreso l’interrogatorio.
Dopo meno di un minuto, la donna tornò. Sembrava aver ritrovato la propria autostima.
Rimase ferma accanto alla porta aperta e disse: “Agente Paige, sempre che sia davvero l’Agente Paige, devo chiederle di andarsene.”
Riley deglutì forte.
“Non capisco.”
“La mia assistente ha appena contattato il BAU. Non c’è assolutamente alcuna indagine in corso relativa ai suicidi al Byars College. Ora chiunque lei sia …”
Riley estrasse il proprio distintivo.
“Io sono l’Agente Speciale Riley Paige” esclamò con determinazione. “E farò tutto il possibile per assicurarmi che una simile indagine venga condotta il prima possibile.”
Passò davanti a Hazel Webber, uscendo dall’ufficio.
Uscendo dall’abitazione, sapeva di essersi fatta una nemica, e anche pericolosa.
Era un diverso tipo di pericolo rispetto a quelli che era solita affrontare.
Hazel Webber non era una psicopatica, che usava armi come catene, coltelli, pistole o torce al propano.
Era una donna priva di coscienza, e le sue armi erano denaro e potere.
Riley preferiva il nemico da prendere a pugni o a cui poter sparare. Ma, nonostante tutto, era pronta e intenzionata ad affrontare la Webber, e qualunque sua minaccia.
Mi ha mentito riguardo alla figlia, Riley continuava a pensare.
E adesso Riley era determinata a scoprire la verità.
Ora la casa sembrava vuota. Riley fu sorpresa di essere uscita senza incontrare una sola anima. Avrebbe potuto rubare e farla franca.
Entrò in auto e mise in moto.
Quando si avvicinò al cancello della villa, vide che era chiuso. All’interno c’erano la robusta guardia che l’aveva lasciata passare e l’enorme maggiordomo. Avevano entrambi le braccia incrociate e, ovviamente, la stavano aspettando.
CAPITOLO SETTE
I due uomini sembravano senz’altro minacciosi.
Apparivano anche un po’ ridicoli: il più piccolo dei due indossava la sua divisa da guardia, quello più robusto invece, l’outfit eccessivamente formale da maggiordomo.
Come una