Ecco che un giorno una signora americana, di cui il figlio era moribondo, disse a Valeria:
– Non è bene per la vostra piccina di stare quassù. Mandatela via da Davos; o quando avrà quindici anni comincierà a tossire anche lei.
« Mandatela via! » Sicuro; bisognava mandar via béby. Valeria capiva che bisognava fare così. Sentiva lei pure che lo stormo di microbi che usciva da tutti quei polmoni malati la ravvolgevano, lei e la sua creatura, in un nembo di morte. I germi dell'etisia! essa li sentiva, li vedeva, li respirava. Le pareva che l'odore ne fosse sul suo guanciale la notte; che le lenzuola e le coltri li esalassero; che il cibo ne fosse pregno. Poco le importava per sè; ella si sentiva forte e sana. Ma la sua creatura! Quel fragile fiore del suo sangue, era anche del sangue di Tom! Tutti i fratelli e le sorelle di Tom, meno una sola – una ragazzetta chiamata Edith, che viveva in Hertfordshire – tutti eran morti nell'adolescenza: uno a Bournemouth, uno a Torquay, uno a Cannes, una – la piccola Sally, la sorella prediletta di Tom – a Nervi. Tutti erano morti, fuggendo la morte che portavano in seno. Ora Davos aveva salvato Tom. Ma bisognava mandar via la piccina.
Chiesero consiglio a due dottori. L'uno disse: « Eh! si sa!… » e l'altro disse: « Eh! non si sa!… »
Tom e Valeria decisero di non correre rischi. Una mattinata nevosa, si misero tutti in viaggio per Landquart; ivi Tom doveva lasciarle proseguire da sole, il dottore avendogli raccomandato di tornare subito a Davos. Ma a Landquart la bambina piangeva, e Valeria piangeva; dunque Tom saltò nel treno con loro e disse che le accompagnerebbe fino a Zurigo; colà lo zio Giacomo sarebbe venuto a prenderle per condurle in Italia.
– Allora sarete sane e salve, mie due povere scioccherelle sperse, – disse, cingendole tutt'e due con braccio protettore, mentre il treno li portava giù verso le nebbie. E porse alla sua piccolissima bimba un dito, a cui la minuscola mano si avviticchiò.
Ma Tom non arrivò mai a Zurigo. Ciò che vi arrivò era una forma inerte e terribile, colle membra abbandonate e la bocca piena di sangue.
Valeria pianse, e la bambina pianse; e una folla di impiegati e di curiosi si radunò intorno a loro. La bambina pianse, e Valeria pianse; ma Tom non poteva più consolare le sue due povere scioccherelle sperse.
Gli trovarono nella tasca il testamento:
« Valeria, my darling; lascio a te tutti i miei beni terreni. Conduci in Inghilterra la bambina. Fammi seppellire a Nervi, vicino a Sally. Mi hai reso molto felice. – Tom. »
… Questi erano i ricordi di Valeria, mentre camminava nel mite sole inglese, e piangeva amaramente sotto l'ala del vecchio cappello di Edith.
Giunta ad un ponticello gettato sopra un torrente, Valeria si fermò, appoggiandosi al parapetto; e, come si sporgeva a guardar giù, il cappello di Edith le cadde dalla testa, battè sull'acqua e seguì il filo rapido della corrente.
Valeria lo rincorse lungo la sponda, ma il cappello, girando in mezzo all'acqua, si fermò contro un sasso sporgente. Valeria gettò dei fuscelli e dei ciottoli per farlo muovere, e finalmente, galleggiante e frivolo, esso riprese la sua via… Valeria corse lungo la sponda in pendìo, scivolando sull'erba bagnata e sui sassi umidi; e il cappello sobbalzava e dondolava laggiù, sulle minuscole onde, con un lungo nastro nero teso dietro di sè, come un magro braccio invocante.
Dove il torrente piegava verso un bosco di faggi il cappello girò con esso, e dietro al cappello Valeria.
A un tratto un'esclamazione di sorpresa la fece trasalire; e alzando il viso accaldato vide sull'altra sponda un giovane alto, biondo e abbronzato, che pescava.
– Accidenti! – esclamò lo sconosciuto, alla vista del galleggiante adornamento. – Addio, trota!
E Valeria, timidamente:
– Scusi, potrebbe ripescarmi il cappello?
Il giovane rise e salutò. Poi a grande stento riuscì a fermare il cappello colla canna, attirandolo a sè con pazienti manovre.
– Ahi, quella mia grossa trota! – mormorò. – Da tre giorni – tre lunghi giorni! – le stavo dietro, e adesso era lì…! Basta! – sospirò, e trascinò fuor dall'acqua l'inzuppato copricapo. – Ecco il vostro cappello!
Lo sollevò con due dita, tenendolo pel nastro sgocciolante.
Non era mai stato un bel cappello: era anzi una vecchia e orribile pastorella che Edith portava, protestando, da molto tempo. Certo non pareva un oggetto pel quale valesse la pena di pescare tre giorni.
– Oh, grazie tanto! – disse Valeria. – Ma, adesso come faccio a prenderlo? – E tese, dalla sua sponda, sopra l'acqua larga che li separava, una piccola mano, breve e vana.
– Glielo porterò io, – disse il giovane, tenendo ancora a braccio teso la sgocciolante acconciatura.
– Oh, non si disturbi, – disse Valeria, – me lo può gettare!
Il giovane rise.
– Stia indietro, allora; se la tocca, le darà il raffreddore!
E con gesto allegro scagliò il cappello, che cadde floscio e molle ai piedi di Valeria.
– Dio, che roba! – disse lei, raccogliendolo; e con fronte turbata contemplò la guarnizione di tulle nero che pendeva madida e lamentevole dal bordo. – E adesso cosa ne faccio? Metterlo è impossibile. E se m'arrampico su per queste rive, così ripide e sdrucciole, non credo neppure di poterlo portare in mano…
– Ebbene, me lo torni a gettar qui, – disse il giovane ridendo, – e lo porterò io fino al ponte.
Allora ella, prendendolo ben di mira, gli gettò in pieno petto il pesante e malinconico oggetto; poi si avviarono, ognuno dalla sua parte dell'acqua, e camminarono così, sorridendosi da una riva all'altra. Sul ponte s'incontrarono e si stesero la mano.
– Mi spiace tanto per la sua trota, – disse lei. —
– Mi spiace tanto pel suo cappello, – disse lui.2
E risero entrambi. Poi non seppero più che cosa dirsi.
Egli, allora, vedendole i riccioletti umidi sulla fronte bianca, e le fossette nelle guancie, soggiunse:
– E domani che cosa si metterà in capo… quando viene qui?
– Domani? – domandò lei, alzando due occhi ingenui.
– Sì, domani. Verrà, nevvero? – disse egli, ed arrossì un poco, perchè era assai giovane. – A quest'ora, vuole? – E guardò l'orologio. – Alle undici, dunque…
A quelle parole anche Valeria arrossì. Ma d'un rossore avvampante ed improvviso che poi le lasciò subito la faccia lattea di pallore.
– Le undici! Sono le undici? – esclamò con gli occhi larghi ed esterrefatti.
– Sì. Ma che cos'ha? Perchè si agita?
– Mio Dio! Il béby! – fece lei ansante. – Ho dimenticato il béby! – e senz'altro si volse e corse via traverso i prati, con i riccioli al vento, e col cappello inzuppato che le batteva sulla gonna nera.
Giunse a casa trafelata e pallida. Vide la nurse, rigida ed aspettante, sulla terrazza.
– Sono in ritardo, Wilson? – balbettò lei.
– Sissignora, – disse la serva, con voce aspra e severa. – Molto in ritardo.
– Oh Dio! e béby? Ha pianto? – chiese Valeria ansante. – Come sta? Cosa fa la mia creatura?…
– La sua creatura – disse la donna austera – ha fame.
III
Il giovane biondo tornò ogni giorno alla pesca nel torrente, ma non pigliò altro che la sua grossa trota. La ragazza vestita di lutto, coi riccioli e le fossette, non venne più. Le vacanze finirono, ed egli se ne tornò a Londra; ma prima di partire lasciò sulla riva – là dove si erano incontrati – una lettera d'amore per Valeria, puntata