Uomo politico avventurato, che i meditati disegni della sua giovinezza potè colorire nella realtà luminosa, vide sorgere dal profetico sogno l'evento, saldo sempre sul fondamento di principii, sopra del quale tutta l'azione politica sua si innalzò. Ad una parola inorridivano, non soltanto i reazionarii, ma anche i nuovi arrivati e gaudenti, coloro che arricchitisi colle sue spoglie, si inorgoglivano di essere chiamati figli della rivoluzione.
La parola appunto: rivoluzione.
Di qui, un ibrido conservatorismo, mantenuto in vita mediante spedienti e compromessi, transigendo con tutti, tutti scontentando, fra la universale irrequietudine.
Cavour, con sicuro istinto, riconobbe lealmente il fatto rivoluzionario, vi ravvisò l'annunziazione dell'avvenire.
Importava dirigerlo, richiamarlo, avviarlo a fini di governo. Questo egli volle.
E così, nei primi giorni dello Statuto, contrastò con freddo consiglio le esuberanze e le impazienze, tanto da perderci il seggio in parlamento.
Ma quando la democrazia ebbe per virtù del Gioberti il lampo chiaroveggente della lega italiana e dell'intervento in Toscana, Cavour fu con Gioberti.
In tutta la fase prima della rivoluzione italiana, nel periodo del 1848-49, dopo Novara, durante le angoscie, i tumulti, gli scoraggiamenti, le incertezze di un'ora nella quale patria e libertà parvero sommerse, il Cavour giornalista, deputato resistette all'irrompere delle estreme parti, si ostinò nella sua politica. Credette il volgo che egli volesse, immobile, ancorarsi sul presente, e già nel segreto dell'anima ardente balenavano le folgori di rivincite non lontane.
Iddio che, se suscita gli uomini grandi, fornisce loro il campo e i mezzi di azione, fece sorgere accanto a Camillo di Cavour colui che lo comprese. Vittorio Emanuele II, dal trono, glorificato con l'atto di baldanzosa lealtà al quale il generale Radesky si era dovuto inchinare, stese la mano a Cavour.
Cospirarono insieme, e lo gridò un giorno Cavour dal suo banco il ministro: di quella cospirazione venti milioni di italiani annodavano le fila, in silenzio.
Vittorio Emanuele salvò a Vignale la causa italiana. Il suo primo ministro di allora, Massimo d'Azeglio, preservò la costituzione dalla impotenza, lo Stato dall'anarchia.
In quei giorni Cavour ritornò alla tribuna parlamentare: sgabello o tripode, là è la fortuna dell'Italia nuova.
Diceva allora Cesare Balbo: «lo Statuto, null'altro che lo Statuto.»
Replicava Cavour: «lo Statuto con tutte le sue conseguenze.»
È la Rivoluzione fatta governo, che si modera per proporzionare i mezzi ai fini ed a ciascun giorno assegna il cómpito, risoluta, impavida, certa che nessun reggimento vale, se non è sincero fino all'estremo, checchè si dica.
Ecco profilarsi il vero conte di Cavour: l'uomo nuovo, nato proprio per il suo tempo. Non ha rancori nè pregiudizi.
Appartenente ad una casta spodestata dalla rivoluzione, non soltanto rinuncia allegramente al privilegio, ma si compiace che trionfi la dignità umana. Questo sentimento domina tutte le azioni sue: egli vi fonda le sue ambizioni di patriotta e di liberale.
L'avvenire della Società europea gli appare chiaramente a traverso questo lucido cristallo, e gli sorride che la patria sua sia esempio di dignità coraggiosa.
Così egli si circonda di nobile poesia, che l'istinto popolare decora co' suoi entusiasmi.
Egli è già quel Cavour, che nelle imaginazioni e nei ricordi del popolo italiano vive in un chiarore, che splenderà finchè duri la memoria del nostro secolo.
Il suo indipendente carattere lo emancipava fino dalla giovinezza. Non egli dovette disdirsi, rinnegarsi.
Nè abbandoni nè apostasie. Allorchè l'ora scoccò, era sciolto da ogni impegno verso il passato. In quel punto, potè essere capo dei liberali in Piemonte e come quegli che, nella assoluta indipendenza dello spirito, aveva ripudiato le tenerezze della casta e i favori aristocratici, sentiva in cuore il diritto di irrigidirsi contro le invidie ed i sospetti della demagogia, di reclamare altamente la gloria di dare il nome suo all'opera di libertà: arbitro e moderatore.
Un'immensa forza questa per lui e, ad accrescerla, il valore pratico della mente, la famigliarità degli affari, la penetrazione acuta del congegno di tutta la vita contemporanea.
Cedendo a lui il posto, Massimo d'Azeglio poteva scrivere: «Sano di mente e di corpo, una attività indiavolata e poi… tanta voglia di stare al governo! Ottimo d'Azeglio! Questa voglia era fatta di fede e di sincerità, di ardore appassionato e di convinzione profonda.
Bisogna penetrare un po' addentro a queste anime e sentire come palpitano, ferventi. Ambizione, ambizione! È denigrare noi stessi il supporlo, quando la patria aspetta, e le più alte idealità umane sorridono. È predestinazione, non ambizione.
È il segnato in fronte che afferra il labaro e muove alla conquista.
Egli cammina innanzi alle turbe!
Immaginiamo quei giorni.
Fresche ancora le ferite di Novara, la gente cominciava appena a riaversi ed a guardare attorno.
Una fazione potente per schiatta illustre, per servizi alla monarchia, altera nella incorrotta fama, che fu il pregio grande dell'aristocrazia subalpina, avversava il nuovo ordine di cose.
Era gente che aveva difeso in battaglia lo Statuto e la causa nazionale, ma non credeva all'Italia, nè alla costituzione. Ci vedeva il precipizio della dinastia: armeggiava in Corte. Non attorno al Re, inaccessibile e risoluto, bensì presso la regina, la madre e la moglie del Re, timide, pie, austriache entrambi. Angeli di bontà, ma nel cuore, arciduchesse. Una parte di codesti signori si adoprava in Senato. Una specie di vecchia fronda, senza duchesse di Longueville, ma con qualche virgulto di cardinale di Retz. Il profilo ne balza dalle pagine di un memorandum lasciato dal capo, il conte Solaro della Margherita: un piccolo Metternich, si diceva.
Ma era un Metternich buon diavolo.
Accanto a costoro, si schierava in altezzosa dignità, la falange dei conservatori che avevano consigliato e sottoscritto lo Statuto, illustri e sapienti, liberali per natura e generosità di animo, conservatori per tradizione, per scrupolo, per istintiva repugnanza alla democrazia in azione, per timore di esserne soverchiati.
Seguivano i liberali democratici, propensi per indole, per studi, per istintiva saviezza ai consigli prudenti, ma decisi al trionfo dei principii liberali, ad ogni costo; ardenti per la causa italiana, diffidenti di persone e di cose che rammentassero il governo passato, sospettosi della Corte, della nobiltà, dell'alto clero.
Seguivano i democratici ad oltranza, i rivoluzionari per temperamento o per professione, reboanti di declamazioni contro i troni e le chieriche, esalanti verso il barbaro ed i tiranni le più rumorose contumelie, frementi ancora del lievito quarantottesco: santo e benedetto lievito che aveva fatto le barricate, ma che nell'ora melanconica del raccoglimento, dopo la sconfitta, appariva meno opportuno.
Intorno al mondo politico: una nobiltà restìa, un clero avverso, una borghesia scontrosa e un popolo sbalordito da tante novità, che si risolvevano in maggior carico di tributi.
A poche marcie da Torino, l'Austria che vegliava e nulla avea dimenticato.
Per l'Europa correvano ancora i brividi del '48, quando la rivoluzione era penetrata anche a Vienna; era stato appunto codesto scoppio di uragano che avea ribadito in Cavour il convincimento di una politica liberale e progressiva. Ma in quanti pochi a seguirlo!
Poichè la paura dominava gli uni, il furore acciecava gli altri e il vecchio spirito europeo stava coi primi. I principi italiani, nell'Emilia, a Napoli, ne erano incatenati; il papa scagliava l'anatema al Piemonte, e fin la Francia, terrorizzata dal colpo di stato di Napoleone III, appariva nel momento un'incomoda vicina, dalla quale i costituzionali subalpini non speravano consigli ed incoraggiamenti. Doveano star paghi delle lontane e platoniche simpatie dei whigs inglesi.
D'altra parte, non erano spente le ire, ne sopite le audacie