L'OPERA DI CAVOUR
Allorchè Tommaso Carlyle incominciava nel 1839 le sue celebri letture sugli Eroi, presentì la disputa che, colorandosi di scienza, si avvivò, ai nostri giorni, intorno al modo di essere dei grandi uomini, ricercandone con minuziosa indiscrezione le particolarità fisiologiche, ricostruendo, come si dice, l'ambiente entro il quale nacquero e si educarono, cercando di sorprendere il segreto delle esistenze meravigliose nelle funzioni dei nervi e del ventricolo.
Carlyle indovinava l'evoluzione di un pensiero scientifico tanto orgoglioso, che dalla conoscenza della materia organica ascende imperterrito ai misteri della psicologia.
Ancora l'ombra crucciata di Leopardi muove angoscioso lamento, perchè le ineffabili melanconie della sua anima innamorata e dolente, dalla profanazione invereconda, sono trasfigurate in psicosi epilettoide!
Diceva allora Tommaso Carlyle: «Mostrate ai nostri critici un grande uomo, un Lutero, per esempio; incomincieranno, come essi dicono, dallo spiegarlo; non lo ammireranno; ne prenderanno la misura e diranno che è un prodotto del tempo.»
Il tempo!
Ahimè, sappiamo di tempi che invocarono ad alte grida il loro grande uomo! Non vi era. La Provvidenza non l'aveva inviato; il tempo doveva sfasciarsi in confusione e ruina perchè egli, l'invocato, non voleva sopraggiungere.
Eccoci oggi, che è giorno di data augusta,1 quasi fatidica, di fronte alla figura del conte Camillo Benso di Cavour.
Egli è nato nel 1810 a Torino, in grembo ad una famiglia di alta nobiltà; nelle vene gli scorre un po' del sangue di San Francesco di Sales. Da moltissimi anni, da secoli i suoi antenati servivano in campo ed a Corte; egli stesso era stato tenuto a battesimo da un cognato di Napoleone, del quale il padre era ciambellano. Trascorse i primi anni nella intimità di due zie profondamente legittimiste e ultramontane – era allora una parola di moda per designare i clericali – in mezzo ad una serie di congiunti infervorati in quei ripicchi delle restaurazioni, che, dopo il 1815, si ripagavano delle umiliazioni di venticinque anni.
Ebbene, fui da quel tempo, una di quelle zie, la duchessa di Clermont Tonnerre compiangeva e deplorava: «Le pauvre enfant, diceva del giovane Camillo, est entièrement absorbé par les révolutions.»
Le pauvre enfant non voleva tornare indietro e, costretto alla milizia dalle tradizioni della schiatta, scelse il corpo del Genio, il meno militaresco, il meno aristocratico, ma il più studioso e serio.
Condotto a fare il paggio in Corte per diritto di sua nascita e per obbligo della sua condizione di cadetto, non tardava a buttar in aria quella che egli chiama, con poca reverenza, una livrea.
I novatori cominciano tutti ad un modo: si fanno ribelli. Ma sono codeste le ribellioni che costano di più. Non mutano le consuetudini, nè la compagnia: ma quelle diventano irritanti, questa ostile; ne sono turbate le amicizie; l'ironia, la celia, il benigno compatimento lasciano trasparire l'irrisione. Niun conforto, se non la serenità della coscienza e la sincerità dell'animo: niuna che non sappia di diffidenza e di canzonatura. Camillo di Cavour, frugolo, irrequieto baldanzoso, esuberante, vivacemente eccitato dagli spettacoli di un mondo che spezza i ceppi e tenta vie nuove; avido di vita e tumultuanti nel suo capo idee, ambizioni, propositi, esce un bel giorno in una profezia:
– Sarò ministro del regno d'Italia. —
Il regno d'Italia!
Voi lo sapete, che cosa significava nel 1830 questa espressione?
Ne parlavano gli avanzi dell'èra napoleonica come di un sogno o di un'allucinazione. Nessuno osava risuscitarlo, neanche come illusione, neanche come speranza! La più stravagante fra le chimere! Un delirio di pazzi o uno sproloquio di rimbambiti!
Questo il regno d'Italia dopo il '21, dopo Laybach, dopo Verona.
Ed ecco che il paggio turbolento e recalcitrante è confinato al forte di Bard, uno dei baluardi che la Santa Alleanza voleva rafforzati in odio della Francia e del liberalismo occidentale.
Il forte di Bard domina una stretta gola nella valle di Aosta, in uno dei punti più austeri e più cupi della valle, un torvo ciglione si accampa e la sbarra.
La fortezza vi sta sopra e le atticciate casamatte dominano il corso della Dora Baltea, che mugola impetuosamente, scavandosi il letto nel sasso. Intorno: altre rupi elevate, nude e bieche. Il paesaggio è rude, imponente, ma melanconico e selvaggio.
Il giovane ufficiale vi espia le intemperanze del linguaggio. Non è un gaio soggiorno, a vent'anni! Ma egli vi reca quel buon umore, che sarà la sua caratteristica, quella curiosità attiva, che gli farà imparare tante utili cose. Alla sera, verso il tramonto, egli suole scendere al fiume e si asside sopra un masso che l'acqua lambe.
Quali allora i pensieri di lui? Di certo, fra le sue pupille vagano le vaghe prospettive di cose nuove e sconosciute. Lo sguardo di Colombo fanciullo, in riva al mare.
Le montagne alte nereggiano intorno a quel biondeggiante capo destinato alla storia, la fronte spaziosa s'irradia dei chiarori di quel cielo limpido e freddo dell'alpe, che è tanto luminoso!
Passeranno molti anni, e i terrazzani avranno battezzato quel rustico sedile: la pietra di Cavour. Ma egli non ricorderà con piacere quelle giornate. È l'esilio, è l'esilio dal mondo, dove il petulante e attivo ingegno si alimenta. Però, non invano l'avrà visitato la meditazione e non invano quello spirito indipendente e spregiudicato avrà respirato la poesia della solitudine. Contro il sentimentalismo e la poesia, Cavour scoccherà i suoi frizzi: egli pretenderà di essere negato all'arte ed all'imaginazione. Ma intanto, quale poesia più affettuosa e delicata, quando appenderà innanzi al suo tavolo di lavoro la tunica del nipote Augusto, caduto a Goito per l'Italia e quel drappo forato da palle austriache, unica eredità che egli avrà voluto, sarà là come il pio simulacro del voto giurato nel suo cuore; il voto all'Italia, per la vita! È un voto di giovani anni e la solitaria rupe di Bard ne fu forse il primo testimone, a divampare dei presentimenti che la rivoluzione del 1830 accendeva nell'animo di lui.
Egli è così fatto che, appena imprese a meditare, i problemi morali e politici del suo tempo gli si affacciarono intieramente.
Li vide colla veemenza di un'interna visione e concepì l'altezza morale della libertà e dell'indipendenza, stimandole il fondamento di una saggia e dignitosa educazione civile.
Condotto dai suoi studi di matematica, dall'indole equilibrata a non scambiare il fatto con la parvenza, a mettere l'accordo fra il pensiero e l'azione, a nulla trascurare che rendesse questa più efficace, egli intendeva altresì che la libertà, la indipendenza nazionale erano necessarie al movimento sociale ed economico, che il suo perspicace intelletto gli dipingeva.
Breve fu l'esiglio di Bard. Il giovane patrizio, insofferente di formalismo, non potendo, per ossequio alla volontà paterna, mutare di cielo, come aveva fatto Vittorio Alfieri, muta, se non altro, occupazioni, abitudini, tenore di vita.
Egli si butta all'agricoltura.
Una vasta distesa di campi, in una pianura monotona, dalla quale a malapena, nelle giornate chiare, si scorge il bianco frastaglio dell'Alpe piemontese.
Un'abitazione rurale, intorno alla quale si affaticano contadini e brulicano mandre copiose, diventa il centro dell'attività di Cavour.
Quest'uomo che nega a sè stesso il dono di poesia e che, desto all'alba, passa i giorni nei campi, nelle risaie, nei prati, intento alle seminagioni, ai concimi, alle irrigazioni, all'incrocio dei merinos, all'ingrassare dei buoi, scrive nobili lettere, così lucide e liete, nelle quali la vita dei campi vibra di così grande efficacia morale ed intellettuale, come nessuna egloga virgiliana.
E intanto egli riconosce le quistioni economiche che dominano il mondo moderno. Nella pratica dell'agricoltura riscontra i concetti, le formule, i presagi dell'Economia politica: quando gli capiteranno i libri di Bastiat, avrà già intuito le difficoltà, le resistenze, gli ostacoli e concepito che la libertà economica è il segreto dell'ora che volge.
Allorchè, nei riposi della