Natura grandiosa, fantasia ardente, ingegno universale, Lorenzo mandava di pari passo lettere, filosofia, galanterie, mascherate, vita di campagna, vita di città, laudi sacre, canti carnascialeschi, canzoni a ballo, sacre rappresentazioni, intimità cogli amici, i letterati e gli artisti, ospitalità sontuose a principi che capitavano, eriger chiese e ville, passione dei musei e dei cavalli, della musica e delle belle donne, banchetti e processioni, politica e giostre.
La più celebre è appunto di questi anni, nel 1478, e prende nome da Giuliano ed è la più celebre, perchè fornì argomento alle Stanze del Poliziano. Precede alla giostra e alla composizione delle Stanze un avvenimento intimo dei due fratelli Medici, la morte della bella Simonetta Vespucci, amante di Giuliano, nel 1476, ed interrompono la composizione delle Stanze la congiura de' Pazzi e l'uccisione di Giuliano nel 1478. Il terribile epilogo, e non voluto, del poema è dunque la narrazione in latino sallustiano, scritta dallo stesso Poliziano. L'epilogo, forse ideato e non potuto scrivere, il cavalleresco epilogo cioè della più bella data in premio al più cortese, al più prode, sarebbe mai quello rappresentato con inspirazione polizianesca dal Botticelli nello stupendo quadro dell'Accademia di Belle Arti, detto comunemente: la Primavera? È una ingegnosa e nuova interpretazione del quadro, proposta ora dal prof. Jacopo Cavallucci e che a me pare fondatissima. La Ninfa del poema è certo quella del quadro. Basta rileggere le Stanze:
Candida è ella e candida la vesta
Ma pur di rose e fior dipinta e d'erba;
Lo inanellato crin dell'aurea testa
Scende in la fronte umilmente superba.
Ridele intorno tutta la foresta
E quante può sue cure disacerba.
Nell'atto regalmente e mansueta
E pur col ciglio le tempeste acqueta.
Ella era assisa sopra la verdura
Allegra e ghirlandetta avea contesta
Di quanti fior creasse mai natura,
De' quali era dipinta la sua vesta.
E come prima al giovin pose cura
Alquanto paurosa alzò la testa,
Poi con la bianca man ripreso il lembo,
Levossi in piè con di fior pieno un grembo.
Mosse sovra l'erbetta i passi lenti
Con atto d'amorosa grazia adorno
Ma l'erba verde sotto i dolci passi
Bianca, gialla, vermiglia azzurra fassi.
Non meno certo è che la figura del giovine, situato a sinistra, è il ritratto idealizzato di Giuliano, somigliantissimo, parmi, all'altra figura di Giuliano, che è nel quadro dell'Epifania del medesimo Botticelli; e quasi lo stesso motivo poetico delle Stanze e del quadro la Primavera, e la poesia attribuita a Giuliano de' Medici, ma che il Carducci giudica del Poliziano, ed è diretta alla Simonetta. Se la ninfa del quadro sia il ritratto della Simonetta, fra tanta incertezza dei ritratti di questa vaga e celebre beltà, non si può forse determinare assolutamente, ma altri emblemi, il lauro allusivo a Lorenzo, i tre fiori d'ireos fiorentina, tutto concorre a dare a quel quadro un significato Mediceo spiccatissimo, e si sa che i Medici l'ebbero caro come un ricordo di famiglia.
Comunque, il dolce nome della Simonetta mi riconduce a Lorenzo, perchè dalla vista di lei morta e portata, scoperto il volto, al sepolcro, come narra il famoso epigramma latino del Poliziano, Lorenzo pretende, nel Commento ai propri sonetti amorosi, essersi sentito sollevare alla perfetta cognizione platonica dell'amore, da una morta trapassato poi in una viva, dalla Simonetta in Lucrezia Donati, da lui incontrata in una festa, alla quale “concorsono, dic'egli, tutte le giovani nobili e belle„. È una gentilissima invenzione, ma invenzione di certo, perchè l'amore della Donati è precedente di dieci anni almeno alla morte della Simonetta, e solo dimostra che continuò anche dopo il matrimonio di Lorenzo con Clarice Orsini, sempre però puro, ideale, platonico, petrarchesco, come assicura Ugolino Verini, un poeta intrinseco di Lorenzo, e dietro a lui molti altri confermano, sicchè noi non possiamo far di meglio che credere ad occhi chiusi a sì concordi testimonianze.
Tutta questa lieta visione di giovinezza e di amori si dilegua nella congiura de' Pazzi. Non rinarrerò quella scena, una delle più straordinarie della storia di Firenze, perchè tutte già l'avete a memoria; quella messa in duomo col Cardinal Riario, che assiste; Giuliano e Lorenzo de' Medici con parecchi loro amici, vicini al coro e circondati, senza saperlo, dai congiurati; il popolo devoto, che li attornia, e mentre il sacerdote celebrante solleva l'ostia consacrata e le campane suonano a gloria, Giuliano, ferito a morte dal Bandini, cadere immerso nel proprio sangue, Lorenzo assalito e ferito anch'esso, ma avvoltasi la cappa a un braccio e tratta coll'altro la spada aprirsi il passo alla sagristia, dove riesce a scampare. La chiesa è tutta un tumulto; le vôlte quasi crollano alle grida; il Cardinal Riario, accovacciato presso l'altare, ne rimarrà pallido di terrore tutta la vita. Intanto a quel suono di campane, altri congiurati, con l'Arcivescovo Salviati alla testa, assalgono il Palazzo della Signoria, ma sono presi, i principali impiccati alle finestre, altri respinti, mentre il popolo, infuriato per la morte di Giuliano, vuol riveder salvo il suo Lorenzo dalle finestre del Palazzo di Via Larga, poi trucida per le vie quanti congiurati o sospetti gli vengono alle mani, chi dice settanta, chi cento, chi più; giustizia orrenda, ma che dimostra avere il popolo giudicata la congiura per quel che era, una trama ordita, non per amore di libertà, ma per odii e cupidigie private dei Pazzi, del Papa e dei Riario, suoi nipoti, e quindi aver senz'altro voluto vendetta dei congiurati. Dissimulando la complicità sua, il Papa ruppe guerra a Firenze e vi trascinò il Re di Napoli, suo alleato, pretendendo che la guerra era fatta non a Firenze, ma a Lorenzo. Questi vide bene il pericolo di tale perfidia; intuì rapidamente la necessità d'un gran colpo, scindere cioè l'alleanza del Papa col Re, e deliberò a qualunque rischio di consegnarsi da sè nelle mani del Re. Partì accompagnato dai voti e dall'ammirazione di tutti. Tornò colla pace, tornò glorioso, tornò onnipotente, e di questo momento si valse subito per riassodare l'autorità sua e della sua Casa. Questo si chiama veder chiaro in politica! Di più, poteva in quel momento esser principe e non volle; preferì una repubblica signorile a una signoria repubblicana. Questo si chiama moderarsi nella vittoria, la più difficile di tutte le virtù politiche. Poteva cioè uscire dalle tradizioni della storia fiorentina e non volle!
Quante volte il fatto dei Medici e di Lorenzo non s'è ripetuto anche nella storia d'altri paesi? Al ritorno di Cosimo dall'esilio il popolo vide in lui un liberatore, non un tiranno. Al ritorno di Lorenzo da Napoli accadde lo stesso e anche più. Perciò non credo ch'egli avesse bisogno di corrompere il popolo, distillandogli i sottili veleni della voluttà per meglio dominarlo. Anche questa è una delle tante frasi fatte, ma, ha ragione il Gaspary, “un individuo non corrompe una nazione, quando essa non sia già corrotta„. Quanto a morale e gusto di piaceri, il popolo valeva il signore e il signore il suo popolo. Per questo s'intesero così bene! Nè si nieghi l'azione di Lorenzo sulla civiltà della Firenze d'allora, sofisticando su qualche data di nascita o di morte di grandi artisti, perchè tutta la grande fioritura artistica e letteraria del 400 fiorentino è Medicea, nè tali quistioni si trattano coll'orologio alla mano. Il vero è che nè una protezione principesca basta da sola a creare una civiltà, nè una tirannia, anche più deprimente di quella dei Medici, a farla sparire. V'ha bensì sull'ultimo della vita di Lorenzo, come già dissi, un principio di reazione morale e religiosa, che s'incarna nel Savonarola, ma la impicciolirebbe di troppo chi la considerasse provocata da un uomo solo, anzichè dall'indole generale della nuova cultura, dei nuovi costumi e dei nuovi tempi. Le lettere, che Lorenzo scrive alla morte di sua madre, la pia e ingegnosa