Intanto le ricerche e gli studi sull'età Medicea e su Lorenzo continuano indefessi; si ampliano e si integrano i documenti raccolti dal benemerito Fabroni; al togato Guicciardini della Storia d'Italia succede il Guicciardini della Storia Fiorentina, dei Ricordi e di quel capolavoro del pensiero politico italiano, che è il Dialogo sul Reggimento di Firenze; abbiamo cioè l'espressione viva e immediata di un quasi contemporaneo, che è insieme una gran mente d'uomo di Stato, e tuttociò ci frutta fra il 1874 e 75 l'opera capitale su Lorenzo dei Medici di Alfredo di Reumont ed il giudizio pieno e definitivo di Gino Capponi. Si direbbe che il processo è chiuso, che la sentenza ultima è pronunciata; che, com'è per lo più di tutte le sentenze della storia, Lorenzo ne esce nè del tutto assolto, nè condannato del tutto. Oibò! La buona fortuna del Sismondi non è finita. Esso rivive con tutte le sue collere e i suoi anatemi nel Perrens, che sotto gli occhi nostri, nel 1888, e valendosi anzi di tutto il lavoro critico avvenuto dal Sismondi in poi (giacchè, bisogna dirlo, il Perrens è anzi, per straniero e francese che parla d'Italia, mirabilmente informato), riapre il processo e non una parte di Lorenzo si salva; l'uomo, il padre, il marito, il cittadino, il signore, lo statista, il mecenate, il letterato, tutto, tutto è oscurato e ravvolto in una stessa condanna. È una demolizione compiuta. Del tempio e della statua non resta in piedi neppure una pietruzza, che dica al passeggiero: qui fu Lorenzo de' Medici; tantochè all'ultimo lo stesso Perrens si ferma col martello in mano e quasi spaventato dell'opera sua; si sente preso anch'esso da quel dubbio, da quell'incertezza, che, come dicevo, assale dall'Alfieri in giù tutti i più sfidati avversari di Lorenzo; ma è supremamente comica la forma che piglia questo tardivo rimorso nel Perrens, il quale si rivolta contro il suo maestro ed autore, contro il Sismondi, e quasi lo apostrofa dicendo: “via, è troppo! Un po' di discrezione, s'il vous plaît. Non è poi certissimo che quei vostri cari Albizzi fossero proprio campioni di libertà e di democrazia in confronto dei Medici e, quanto a Lorenzo, conveniamo che, se non fu veramente l'ago della bilancia nella politica italiana del suo tempo, come pretendono i suoi adulatori, qualche cosa ha pur fatto per mantenere la pace, almeno dalla guerra di Sarzana fino alla sua morte, dal 1487 al 1492. È pochino! Sono cinque annetti soli! Ma questo almeno si conceda per dimostrare, se non altro, la nostra imparzialità!„
Voi vedete, o signore, fra che odii e che amori, fra che assoluzioni e condanne, fra che spinaio di giudizi diversi sarebbe costretto a ravvolgersi chi avesse oggi da narrare a fondo la storia di Lorenzo il Magnifico, della sua vita e del suo tempo. E se ho dovuto indugiarmi tanto, solo per accennare le difficoltà del mio tema, mi conforta il pensiero che accennare tali difficoltà è già esso stesso un illustrarlo, e che, parlando ad un pubblico così culto e in massima parte fiorentino, m'è lecito presupporre l'argomento noto almeno nelle sue linee storiche principali e non tenermi obbligato a ridir tutto per filo e per segno, che già sarebbe chieder troppo all'industria del conferenziere e alla sofferenza del pubblico.
A giudicare dei Medici e di Lorenzo con quell'imparzialità almeno relativa, a cui gli uomini possono aspirare, mi pare del resto che la nostra generazione dovrebbe oramai essere meglio disposta delle precedenti, la nostra generazione, che in fatto di politica è passata a traverso tante bonacce e burrasche di promettenti primavere, di malinconici autunni e di inverni spietati. Essa dovrebbe sentirsi, dico, meglio disposta a non farsi guidare nel giudizio di un passato remoto, che si tratta di conoscer bene, ma non muta più, da idoleggiamenti rettorici di forme di governo, qualunque esse siano, o da preoccupazioni politiche, che mutano ogni giorno.
La storia indifferente al bene od al male perde non solo ogni efficacia morale, ma ancora ogni calore e vivezza di rappresentazione. Ma altro è una gelida indifferenza al bene od al male, altro è gettarsi a capo chino fra le lotte d'un'età tanto lontana da noi e sposarne gli odii, gli amori, come se fossero i nostri, e aggregarsi a una fazione contro dell'altra. Si moltiplicano per tal guisa deliberatamente le occasioni e le cause d'errori infiniti, giacchè, per quanto ci sia dato penetrare a dentro nella storia con le ricerche, gli studi e attingendo, finchè si può, dalle fonti originali delle memorie e dei documenti contemporanei, resta pur sempre un qualche cosa, che nessuna ricerca può far rivivere, che nessuno studio può rimetterci dianzi agli occhi, che nessun documento può dirci, ed è forse appunto in quell'inafferrabile qualche cosa, che giace riposta la spiegazione vera di un fatto o d'un uomo, la ragione ultima d'assolvere o di condannare. Di ciò si ha un segno evidente in quella specie di sforzo che occorre, in quella specie di disagio morale e qualche volta, direi quasi, anche fisico, che si prova a volersi addietrare col pensiero nella vita di generazioni già lontane da noi. Ce ne vuole per assuefare non soltanto l'animo a sentimenti e passioni, che non si provano più, ma la fantasia e gli occhi ad abitudini, a costumi, a fogge, ad arredi, a vestiari, che non sono più i nostri, a compiacersi di divertimenti, che oggi ci parrebbero torture, a persuadersi del buon gusto di un pranzo, che oggi ci rovescierebbe lo stomaco, a ridire d'una burla o d'un motto, che oggi ci suona come una freddura senza sugo, e via dicendo. Quello sforzo e quella specie di disagio scemano in noi più ci si affina il gusto della storia, e si convertono anzi in una misteriosa delizia, che può divenire persino passione e mania. Ma dimostrano insieme (e ciò dico in particolare a proposito dei Medici e di Lorenzo) la necessità che lo studio della storia rimanga, più che possibile, obbiettivo, la necessità di non spostare nè uomini, nè fatti, di sceverare il generale dal particolare, di non dar troppo all'ambiente, come oggi s'usa dire, per togliere all'uomo, nè attribuire a questo, per quanta azione abbia avuto sul tempo suo, ciò che è dell'ambiente, in cui quell'uomo ha vissuto, di sentenziare di preferenza dagli effetti palesi dell'opera sua, che sono ben noti, anzichè dai movimenti individuali e interiori, dei quali nessuno può più dirci intiero il segreto, di non prolungare finalmente al di là di certi limiti quegli effetti medesimi per incolparlo anche di ciò che risulta da tutti altri uomini e da tutt'altre condizioni di tempi, scordandoci a suo danno quello che l'esperienza ci dimostra ogni giorno, cioè che l'uomo è appena padrone del minuto che passa.
Ora se v'ha personaggi storici pei quali queste cautele siano state più trascurate, direi che sono i Medici per l'appunto. E si capisco facilmente il perchè. Non parliamo dei Medici, dal 1531 Duchi e Granduchi. Ma per quelli della prima linea, a non dir che di loro, per Cosimo il Vecchio, Piero il Gottoso, Lorenzo il Magnifico, furono tanto più facilmente trascurate quelle cautele, perchè essi appassionano, come già dissi, più di tant'altri personaggi storici, gli scrittori, e gli appassionano tanto più, perchè non sono semplici capi ereditari d'una dinastia, d'una città, d'un regno, ma, oltre alla singolarissima forma del potere che esercitano, sono, se non gli autori, gli attori più in vista, pel loro grado, per le loro tradizioni, per le loro aderenze, pel loro genio e le loro inclinazioni personali, di tutto un nuovo e gran moto di civiltà, comprendente non solo le forme di governo, le arti, le scienze, le lettere, ma i pensieri, i sentimenti, la religione, la morale, i costumi, le usanze, tutta nel suo complesso la vita pubblica e privata; ond'è che in essi si studia non il