Nè questa volta erano fatti moderni, ai quali, dopo il grande lavorio di tutta una letteratura civile, quanta intercede dall'Alfieri al Carducci, fosse adattato quasi per parafrasi un simbolo tradizionale della nostra storia e della nostra poesia. Non era l'aquila cesarea di Dante, addestrata col logoro retorico a roteare in larghi giri attorno alla corona dell'Italia plebiscitaria, e librar goffamente su quella corona le vecchie ali spennacchiate: non la navicella d'Enea navigante dalla Sicilia alle foci del Tevere con seco i fati latini, che mostrasse il solco a quella sulla quale Garibaldi e i suoi Mille dallo scoglio di Quarto cercavano «l'isola del fuoco», per muovere di laggiù, con l'Italia di Vittorio Emanuele sulle invitte spade, verso Roma destinata. Erano, questa volta, senza simboli e senza interpretazioni, tali quali il Segretario fiorentino aveva, con fioca o forse già soffocata speranza, invocato, erano finalmente l'Italia redenta e il suo Re.
È poi notabile, che se altre voci, di ben minore portata, si levarono in quel triste splendido secolo iniziativo del nostro servaggio, mosse da affetto di patria ad augurare dondechessia un liberatore, non furono indirizzate verso quella regione d'Italia di dove la Provvidenza dovea suscitarlo. Scriveva Benedetto Varchi, rilevando l'interessata politica di Venezia nelle cose italiane, e altresì la necessità d'una egemonia nazionale sulle forze vive della penisola, «non essere le fatiche e gl'infortunii d'Italia mai per cessare, infino che i Veneziani (poichè sperare da' Pontefici un cotal benefizio non si dee) o alcuno prudente e fortunato principe non ne prenda la signoria»: e ciò, forse, con qualche intenzione, del tutto cortigiana, al suo duca Cosimo de' Medici; certo, con nessuna ai duchi di Savoia. Nè altri che Venezia e i Pontefici, «Marco e Piero», pensava il Guidiccioni possibili propugnatori dell'indipendenza italica: ma soggiungeva dolorosamente, non avere speranza alcuna dell'opera loro. Nel quale concetto dovevano quei nostri del Cinquecento essere indótti dal considerare lo Stato ecclesiastico e il dominio di San Marco siccome le sole provincie d'Italia, cui non investisse quel complicato intrico d'interessi dinastici paesani, alleati sinistramente con la rapacità straniera, nelle maglie del quale era irretita, per tutto il rimanente, la patria nostra infelice. Ma e il Guidiccioni e il Varchi, uomini di chiesa ambedue, sentivano pure, quanto ai Pontefici, come questa potenziale attitudine del loro Principato a benefizio d'Italia fosse da altre condizioni storiche o contingenze di fatto impedita: il che si era veduto in Giulio II, e si vide poi in Paolo IV; confermandosi sempre la tremenda sentenza con la quale il Machiavelli e il Guicciardini ebbero, quasi con identiche parole, condannata la Signoria temporale dei Pontefici e la corrottissima Curia, dello avere e fatto «diventar gl'Italiani senza religione e cattivi» e «impedita l'unione d'Italia». E quando il Gioberti disegnò e radiosamente colorì l'apoteosi civile del Papato, non però gli resse l'entusiasmo, nè gli bastò l'eloquenza, ad attribuirgli una iniziativa che innanzi tutto bisognava fosse guerriera; ma di questa riconobbe e i caratteri storici e le condizioni giuridiche nel suo Piemonte, anche senza evocare, come avrebbe potuto, le tradizioni di quella che, gesta ambiziosa e di ereditaria ambizione, ma fu pur gesta d'indipendenza italiana, di Carlo Emanuele I. D'allora in poi, dico dal 1848, fu nella egemonia subalpina fermato il concetto, e anticipato con auspicii immanchevoli il fatto, prima, dell'unione, poi dell'unità, d'Italia: di questa unità, alla quale fin dal 1821 era volato il verso di Alessandro Manzoni; della unità italiana, in nome della quale, nel 31, a Carlo Alberto che ascendeva il trono, Giuseppe Mazzini avea mandato il saluto o la minaccia (scegliesse egli) del pensiero italiano; di questa sacra unità, che il venerando Gino Capponi (raccolgo dalle labbra di lui una parola non dimenticabile) diceva essere stata, agli uomini della sua generazione, il primo dei desiderii, l'ultima, perchè la più bella, delle speranze.
V
Se non che all'unità politica avea precorso da secoli l'unità intellettuale: l'unità che emerge dal solo fatto del concepire e rappresentare, e il concetto e l'immagine atteggiare esteriormente secondo un ideale e sopr'uno stampo, che è quello e non altro che quello. Nella parola de' suoi poeti, nella mente de' suoi pensatori, nei miracoli dell'arte emulatrice a quella di Grecia e di Roma, nella sospirosa melodia de' suoi canti, nella musica perpetua della sua lingua, l'Italia sempre era stata, e splendidamente era stata. Il sentimento di questa immanente sopravvivenza ai fenomeni transitorii, anche nei tempi più depressi e desolati della nostra storia, si salvò sempre, e con esso fu salva la parte di noi più preziosa: la coscienza di essere, ed esser noi. Non eravamo «in eterno periti», come nella voce di Giacomo Leopardi sonava nel 1818 il pianto d'Italia serva: «In eterno perimmo?»: poichè, rispondeva il poeta,
Voi, di che il nostro mal si disacerba,
Sempre