Quella «umile Italia», che i compagni d'Enea salutano, nel verso di Virgilio, dall'alto mare, come la meta della venturosa peregrinazione in cerca d'una patria seconda; e che nel verso di Dante accomuna gli eroi della guerra laziale, «Camilla Eurialo Turno e Niso», coi nuovi destini italici, che il Poeta dei Guelfi Bianchi augura dalla ricacciata della negra Lupa curiale nell'inferno per opera del Papa Angelico che il Medio Evo inutilmente aspettò; è, quella Italia de' due sacri poeti di nostra gente, è, ben dessa, la figura d'una patria unica, che si sposò fedelmente alle immaginazioni di quanti, con dolente pietà di figliuoli o con fierezza di propugnatori del materno diritto, han poetato di patria nella lingua del sì. Patria unica, che si sovrapponeva idealmente alle condizioni di fatto della penisola italiana. Dante, che sollecita l'Imperatore a «drizzare Italia», e compiange che non sia ancora a ciò «disposta» questa «Italia, serva» non tanto, per allora, di genti straniere, quanto della guerra intestina che «intorno dalle prode delle sue marine», e nel «seno» suo, la diserta: – il Petrarca, che su «le piaghe di quel bel corpo» sospira, e vuol essere interprete delle «speranze» che dalle rive del Tevere, dell'Arno, del Po congiuntamente si levano a Dio: – l'Ariosto, che impreca alla calata delle «Arpie» straniere sulle mense d'Italia, invocando il giorno ch'ella richieda ai «figli neghittosi» la sua libertà: – il Tasso che vagheggia la unione delle «voglie divise e sparse» da tutto il paese che «i monti e i fiumi» dividere non possono, perchè «quel che partì natura, amor congiunge»: – e nello sfacelo d'Italia lungo il Cinquecento fatale, la voce d'un virtuoso prelato, il Guidiccioni, che in nobilissimi versi consacra al medesimo rimpianto la violata libertà nazionale e il disonor dell'Impero e la fede pericolante di Cristo: – e poi, nell'aggravarsi della servitù e della decadenza, i cortigiani stessi di quei principati sotto tutela, levarsi contro la obbrobriosa tirannide iberica, e convertire come il Tassoni la poesia giocosa in filippiche per il conculcato diritto d'Italia, e volgersi con arcano presentimento a un Duca irrequieto e valoroso di casa Savoia, Carlo Emanuele I, che risponde ancor egli con versi italiani: – e da quelle medesime aule, sia di corte sia d'accademia, qualche alata apostrofe di retorica generosa, o sulla culla d'un Principe pur di cotesta Casa acclamare col Manfredi «Italia, Italia, il tuo soccorso è nato», o deplorare nel sonetto del Filicaia la «funesta bellezza» che le ha tirato addosso, con le straniere cupidigie, la condanna di «servir sempre o vincitrice o vinta»: – finchè l'Alfieri, prenunciatore della libertà che si approssima, dedichi l'opera sua tragica e fatidica «al popolo italiano futuro»: – è tutta, insomma, una non interrotta comunicazione come di una sacra parola, di secolo in secolo, da Dante all'Alfieri, la quale attesta e proclama una Italia, che impedita d'essere nel fatto, vive, come nel decreto divino, così nel cuore e nella fantasia de' suoi fedeli poeti.
E non per questo diremo che la poesia d'Italia fosse una cospirazione a conseguire in effetto l'unità politica della patria italiana; tradurre in atto, con determinati mezzi e deliberata intenzione, quel sentimento italico che empiva i petti e li dilatava in un'aspirazione generosa, o vibrava nei raggi luminosi della visione poetica. A noi, che scendiamo ormai la curva del mezzo secolo nella vita civile della patria costituitasi libera ed una, non si addicono davvero, se anche fossero ormai possibili, certi entusiasmi, ne' quali, aspettando i nuovi tempi, o nella prima esultanza dell'avvento loro, si compiacque l'accademia e la scuola d'allora; quando Italia libera ed una pareva la parola d'ordine che le fide scolte del pensiero italiano si fossero trasmesse perpetuamente dall'uno all'altro dei vigilati posti d'arme; e la rivelazione dei precursori vaticinati, nuova maniera di oroscopia a rovescio, addiveniva esercizio di fantasie quotidiane; e quel povero Veltro dantesco «salute dell'umile Italia» veniva tramutato in tuttociò che tornasse opportuno farlo essere, ma soprattutto nella figura del Re liberatore: di che la Maestà di Vittorio Emanuele è lecito credere che sotto i gran baffi molto di cuore ridesse.
La poesia, o, altramente atteggiato, il saluto del pensiero italiano, non mancò (questo è vero; e i moderni studi critici ne hanno aggiunto preziosi documenti ai già noti) non mancò di augurare, od anco di secondare, a più d'una di quelle che potremmo chiamar geste regionali, non molte del resto, che in diversi momenti della storia d'Italia, allettarono questa o quella, più o meno generosa o interessata, iniziativa, sia di principi, sia di tribuni o cospiratori.
Se anche non è a Cola di Rienzo che il Petrarca abbia indirizzata l'altra delle sue magnanime canzoni italiche, certo accompagnò con altre espresse manifestazioni la impresa repubblicana di lui; la quale, come già quasi quattro secoli prima quella di Crescenzio, poteva, col mutare le condizioni di Roma rispetto al Papato, aprire nuove strade ai destini d'Italia. Ed era naturale che il Petrarca, sì gagliardamente compreso di patriottica latinità, e così fervidamente intento a restaurarla negli studi, si volgesse, con la mobile fantasia, ad accogliere, come una promessa di rinnovamento italico anche negli ordini civili, qualsifosse evento o persona, che più o meno direttamente accennassero a tanto: fosse oggi quel suo re angioino Roberto, che nel trono di Napoli, e nel capitanato di Parte Guelfa in tutta Italia, avrebbe avuto (se non era il «re da sermone» ben proverbiato da Dante) solido fondamento alle medesime ambizioni di supremazia italica, che su codesto trono avean circondata la corona di Federigo II re ghibellino; o fosse domani l'Impero, se anche nella persona del più dappoco di tutti quei Cesari posticci, Carlo IV di Lussemburgo.
Nel modo stesso, quando, pochi anni dopo, un'altra ambizione, e ben altramente audace e invasiva, quella del Conte di Virtù Giangaleazzo Visconti, fattosi con le armi il ducato di Milano, compratane dall'Impero l'investitura, sentì angusti i confini del Po e dell'Appennino; – e fu quello, in tutta la triste storia frammentaria delle Signorie e Principati domestici, il solo momento che una di codeste avventure (poichè non fu la sola) per una piccola tirannide più o meno italica parve poter essere generatrice d'una forza concentrativa e unitaria in benefizio della nazione; – non più allora la voce di alcun grande poeta, ma voci molte di minori si levarono; non tutte di consenso e d'applauso, ma tutte di apprensione per cosa grande e vitale alla patria italiana. E come in nome d'Italia («Sappi ch'i' sono Italia che ti parlo») avevano vituperato quel «di Lucimburgo ignominioso Carlo»; così ora a questa nuova, ma non degna, speranza d'Italia e di Roma esclamavano:
Roma vi chiama: – o Cesar mio novello,
I' sono ignuda, e l'anima pur vive:
Or mi coprite col vostro mantello.
Poi francherem colei, che Dante scrive
Non donna di provincie, ma bordello;
E piane troverem tutte sue rive.
Non degna speranza, e ambizioni bieche, codeste del Visconti: alle quali il più libero de' nostri Comuni, Firenze, nido e seggio ormai d'italianità intellettuale, contrastò fieramente, nel nome di quella tradizione di libertà municipali, che si era concretata in centri a raggio anche men che regionale, Stati sia di Popolo, sia di Signore o Tiranno; fronteggianti l'uno l'altro, e amici e bonvicini non a più larga stregua che del respettivo tornaconto. Tale tradizione, era, un secolo appresso, da Lorenzo de' Medici fermata e consolidata in equilibrio, ma pe' soli pochi anni che al Pericle fiorentino bastò la vita per la vagheggiata grandezza di questa Atene fatta retaggio