Questa mi fu peggior mercantazia
Ch'i' comperasse mai in vita mia;
Sì cara mi costò la sensaria
A questa volta.
Oimè, Lucca d'ogni vertù folta,
Che, per averti meco, insieme accolta,
Ti comperai, ed altri me t'à tolta,
Ond'io rimango
Con tanta pena, ch'ogni dì me 'nfrango,
E sospirando giorno e notte piango.
E di questo andare continua un pezzo, poichè la sobrietà non è la qualità propria di siffatti cantari. Ma ciò che qui importa è la lieta speranza che anima la chiusa del componimento:
Or tal signor m'à preso ad aiutare
Ched i' ò intenzïon di vendicare
Ogni passata offesa, e racquistare
L'onor perduto.
Che 'l franco capitan prod'e saputo,
Duca d'Atene ch'è per ciò venuto,
Mill'anni par che d'onore compiuto
Ci renfreschi;
E seco menerà pochi tedeschi,
Ma cavalier taliani e francieschi,
Que' che son sempre a ben ferir maneschi
Come leoni.
Ma furono vane lusinghe; e l'istesso rimatore, in una ballata scritta per la cacciata del tiranno, con arguto scetticismo fiorentino ne fa la storia sommaria e ne dà la conclusione morale, che vale per tutti i tempi:
Il giorno della Donna (l'8 settembre), ebbe per manna
Il Duca di Firenze signoria;
E fu disposto il giorno di sant'Anna
Che è madre della Vergine Maria;
E sì come di pria
Si disse – viva, viva! – con gran gioia,
Si gridò – muoia, muoia! —
Comunemente d'una volontade.
Se non temessi d'abusare della vostra pazienza vi leggerei anche qualche verso d'un altro lamento che il Pucci mette in bocca al duca d'Atene, dove egli ricorda che Arezzo, Pistoia, Volterra, Colle San Gemignano gli s'erano date a vita al pari di Firenze (ed è fatto vero), sicchè ei si credette esser re di Toscana; ma s'accorse a sue spese che i Fiorentini “Gente non son da tener con gli uncini„. Poichè, mentre stava per montare in su la rota, ricevette tal colpo sulla gota, onde rimase lasso! ne la mota, Ispodestato. E il peggio fu per Firenze che a un tratto (dice il Machiavelli), del tiranno e del suo dominio priva rimase; poichè quelle città e terre si ribellarono, e non senza promesse e travagli il Comune potè ricuperarle.
Aveva ragione il vecchio Poeta popolare: per soggiogare i Fiorentini non ci volevano asprezze soldatesche e violenze tiranniche, ma arti raffinate e modi civili; e già in mezzo alle discordie delle arti maggiori e minori, e delle famiglie antiche e delle nuove, fra il breve trionfo dei Ciompi e le vendette dei grandi, si faceva strada una casa di ricchissimi e intelligenti banchieri che doveva nel secolo XV creare una particolare forma di signoria, appropriata all'indole della città e assai più salda delle precedenti.
XII
Di tutt'altra natura fu la dominazione esercitata su Pisa e su Lucca fra il 1313 ed il '16 da Uguccione della Faggiuola, gentiluomo romagnolo, prode capitano, ma anche meno dello Scaligero, degno di rappresentare (come fantasticò qualche studioso) il Veltro dantesco. Più volte podestà d'Arezzo ed anche di Genova, di Gubbio, di Pisa e d'altre città, ora chiamato ed ora remosso, ora campione ora sospettato traditore dei ghibellini, egli mirava a farsi uno Stato; e vi riuscì un momento prendendo Pisa per volontaria dedizione e Lucca per forza. Benchè battesse i guelfi toscani e i reali di Napoli nella gran giornata di Montecatini del 1315 (il quale avvenimento porse occasione in quel tempo ad ma ballata anonima mirabile di fervente ispirazione partigiana), fu poco dopo cacciato a furia di popolo dalle sue due città, e morì combattendo sotto le bandiere di Cangrande.
I Lucchesi, liberatisi da Uguccione, elessero capitano e poi signore per un anno il loro concittadino Castruccio Castracani, che aveva passato la gioventù trafficando e militando in Francia e in Inghilterra, ed era stato rimesso in patria da Uguccione stesso insieme cogli altri fuorusciti ghibellini. Ma in quel momento era in carcere e condannato a morte, non ostante il valore mostrato a Montecatini, per cagion di certi omicidi e ladronecci commessi in Lunigiana. Era invero una natura d'uomo e di tiranno, tra tanti, originale e singolarissima: feroce ed ardito, accoppiava le arti civili e politiche colle virtù militari; procedeva senza scrupolo in ciò che gli consigliava la ragione di Stato, e riusciva pure a farsi adorare dai soldati e dai sudditi. Meritò insomma che il Machiavelli ne facesse il protagonista d'una specie di romanzetto storico che intitolò dal suo nome. Bandì trecento famiglie, ne sterminò altre (fra le quali i Quartigiani suoi primi fautori), abbattè trecento torri, servendosi dei materiali per costruire una fortezza, riordinò le milizie cittadine e mercenarie, le esercitò alle finte battaglie, e le capitanò vittoriosamente nelle vere. Accorto parlatore, sempre primo a farsi innanzi in ogni frangente, bastò talvolta la sua sola presenza a sedare un tumulto o a ricondurre le schiere all'assalto. Dopo quattro anni si fece attribuire la signoria perpetua; e, ripresa la guerra coi Fiorentini, li sconfisse a Altopascio nel 1325, inseguendoli poi fino a Signa; il che fu cagione che Firenze si desse a Carlo di Calabria. Già si era impadronito di Prato e di Pistoia; Lodovico il Bavaro con cui entrò in Pisa e che accompagnò a Roma, lo aveva fatto duca, ed egli sfidava una crociata banditagli contro dal cardinale legato Giovanni Orsini, quando morì nel 1328. Nè i figliuoli di lui poterono mantenersi in istato.
Troppo lungo sarebbe enumerare le signorie a cui soggiacque Pisa, innanzi e dopo quella di Uguccione; la prima fu, tra il 1284 e l'88, del conte Ugolino della Gherardesca, la cui catastrofe è sì famosa, e sulla cui memoria pesa una taccia di tradimento, che il mio amico Del Lungo con sagaci ragioni persuade, se non a remuover del tutto, almeno ad attenuare; l'ultima fu del tristo Jacopo d'Appiano, che nel 1392 assassinò il suo predecessore Piero Gambacorti, di cui era cancelliere e familiare; il figliuolo Gherardo nel 98 vendette il dominio a Giangaleazzo, riserbandosi Piombino e l'isola dell'Elba, dove la famiglia durò fino al secolo XVI.
XIII
Pisa, come avverte giustamente il prelodato storico dei guelfi pisani, è il Comune di Toscana che offre minori dissomiglianze con quelli d'oltre Apennino. E però ci apre la via a dir due parole dei tiranni di Romagna, sui quali ha raccolte molte notizie con lodevole diligenza il conte Pietro Desiderio Pasolini. Questi osserva a ragione ch'essi si distinguono tra loro poco più che pel nome, e generalmente non sono notevoli se non per gli atroci delitti di cui sono autori spietati o vittime miserande, e talvolta l'uno e l'altro successivamente, quasi tutti feroci e perversi, pronti a tradire ed a spegnere amici, parenti e fratelli, senz'alcun fine ideale, senz'alcun principio comune, salvochè la sete di dominio. Aggiungasi che la lontananza dai papi, dopo il 1304, e lo scisma d'Occidente dopo il 1378, favorivano le ambizioni dei signori, in quell'inestricabile sviluppo di guerre, di congiure e di stragi. Mettiamo da parte, innanzi tutto, il buon Guido da Polenta, amico di Dante, a cui rese degne onoranze funebri dopo averlo ospitato negli ultimi anni; protettore di Giotto che chiamò a dipingere due chiese a Ravenna; e gentil rimatore egli stesso. I Polentani si erano fatti grandi col favore del clero e quali vicari arcivescovili; ma dopo il 1282, grazie alle podesterie esercitate e all'autorità acquistata, fondarono pacificamente la signoria di Ravenna e di Cervia, or combattendo, or venendo ad accordi coi pontefici e coi loro conti di Romagna:
Ravenna