Il comandante passò quarantotto ore filate sulla passerella: non ne scendeva che all'ora dei pasti cui si presentava lindo ed attillato come ad un ballo, mentre il primo giorno a tempo bello e colle tavole affollate era venuto in abito dimesso. Era un uomo semplice, punto mondano. Noi commensali, tutti uomini, che avevamo smesso oramai di mutar d'abito pel desinare a scanso di fatica e di sforzi d'equilibrio, gli domandammo un giorno la ragione di quella intempestiva eleganza.
– Non lo faccio per voi, signori, ma per gli assenti. Ci sono molti più malati di paura che di mal di mare. Non avete osservato quando ci mettiamo a tavola, il trillare fastidioso di tanti campanelli? Sono passeggieri che chiamano le persone di servizio per mandarle a spiare l'aspetto del comandante. E come lo sanno ravviato e pulito, si acquietano, sicuri che per un'ora almeno non si colerà a picco.
I due artisti di canto «du Théâtre de l'Opéra» erano anch'essi sani e disposti. La prima giornata di viaggio, avevano motteggiato di continuo, con molta sudiceria, sulle dodici monache. Nel pieno della burrasca, come uno di essi fece per tornare ridendo sullo stesso discorso, l'altro lo riprese serio serio:
– Tais toi. Ce sont ces saintes files, avec leurs prières qui nous protègent.
Mezz'ora dopo, il motteggiatore canterellava seduto al pianoforte (ci passava le giornate lo scellerato), certe sue canzonette. A un colpo di mare, lo sgabello a vite si spezzò di netto e lo sbattè la testa prima contro lo spigolo di una tavola, troppo salda quella. L'urto fu tale che rimase privo di sensi. Lo sollevammo grondante sangue da una larga ferita tra i capelli. Mentre lo reggeva accompagnandolo nella stanza del medico, il compagno, gli andava ripicchiando, con un comico cruccio: Tu vois! Tu vois! Tu vois! Così fra piccoli e diversi episodi, dalla mattina alla sera tanto tanto ci si arrivava. Ma la notte! Mi par di sentire ancora in un remoto ronzìo il giudice di Chicago, seduto ad un tavolino con due amici, versare senza posa, con voce bassa e nasale, lenti fiumi di parole. Egli parlava bevendo, quelli bevendo tacendo, e via via, tra i brevi miei sonni, tra i boati dell'onde e del vento, tra lo sconquasso della nave occhiuta e raggiante sul convulso mar tenebroso, la voce inestinguibile dilagava in nota continua di contrabbasso. Che poteva egli dire, ogni notte, tutta la notte, con sì stagnata uniformità di accenti? Quale oscura serie di misfatti andava confessando ai compagni allibiti?
Il venerdì, presso il banco di Terranova, la burrasca quietò alquanto. Era ancora mare rotto e perverso, ma ci furono dischiuse le uscite al ponte scoperto che s'andò in breve ripopolando di gente ancora sbattuta dai lunghi patimenti. Rivedemmo la bella ebrea, i due cubani e sul tardi, Gaudissart. Il commissario indicandomi lontano sull'acque alcuni punti neri, che sembravano canotti rovesciati, me li dà per balene. Credo per atto di fede. Passa in vista e s'avvicina, un gran bastimento diretto in Europa. È una festa grande di saluti e di grida.
Sono involontario spettatore di una scenetta patetica.
Il ponte scoperto è spartito in due grandi corsie lungo i fianchi della nave, fra le quali sorge il castello di mezzo, che copre lo spazio dato alle macchine, le due boccaporte e le scale della prima classe. Per passare d'una corsìa all'altra bisogna girare il castello verso prua, od attraversarlo per un andito stretto che lo taglia ai due terzi della sua lunghezza verso poppa. Quivi pende alla parete il barilotto che protegge una miccia accesa a comodo dei fumatori ai quali è severamente interdetto di accendere fiammiferi. Ma le macchine vi spandono un tale insopportabile fetore d'olio bruciato, che pochi ci passano ed alla interdizione non pensa nessuno.
Ora, verso le quattro di sera, non potendo io al vento accendere la pipa, mi sovvenni della miccia ed infilai l'andito. Uno dei cubani stava in un canto piangendo come un fanciullo, di quel pianto a lungo rattenuto che rompe il petto e che versato da persona vigorosa fa strazio a vedere, mentre la bella ebrea, ritta presso di lui gli andava asciugando le lagrime in atto di pietà calmante e nulla concedente. Mi ritrassi tosto, seccato. La sera, si dava nel salone il trattenimento solito ad ogni traversata a beneficio delle vedove e degli orfani dei marinai. Vi cantarono, i due artisti dell'Opéra (uno aveva la testa fasciata), e la bella ebrea vi recitò a meraviglia un monologo inglese pieno di reticenze maliziose, e cantò due canzonette francesi, a imitazione della Judic. Il cubano era tra gli spettatori, domato, ma non plaudente. Quando mi vide, mi lanciò un'occhiata feroce.
Il sabato mattina ci si fa incontro il pilota, che porta segnato sull'ampia vela triangolare un vistoso numero, argomento di vistose scommesse. Voli di passeri innondano con domestica sicurezza la nave. A sera emerge dell'acque, bruna contro il sole cadente, la terra d'America. Sbarcheremo domattina.
La prima cura di chi scende a terra dopo una lunga traversata è di precipitarsi al boteghino del telegrafo, piantato apposta sullo scalo, onde dare ai cari lontani la notizia dell'arrivo. E quanto più fu cattivo il viaggio tanto è maggiore in tutti la smania di annunziarlo compiuto. Già dal primo rallentare della nave, io m'ero appostato sul passo dell'uscita per potermi precipitare allo sportello telegrafico innanzi che urgesse la folla. Tenevo colle due mani i due capi della ringhiera. La nave era già ferma e ci stava ai piedi sulla banchina una gran gente in attesa. Correvano dalla tolda a terra, parole e grida di riconoscimento e di saluto. Ed ecco che mi viene accanto una bellissima fanciulla sui vent'anni, fresca, rosea, trepidante, la quale non si ristava dal chiamare per nome e dal salutare colle mani un giovane signore che le rispondeva dal basso. Quando mi vide piantato come un termine, essa mi disse in francese, ma coll'accento americano:
– Oh signore, quanto vorrei essere la prima a discendere!
E la sentivo ridere in gola per l'emozione ed il piacere frenati.
– Oh signore, che gioia per me se potessi essere la prima a discendere!
– Lo sarete, signorina, ve lo prometto.
Mi lesse negli occhi un sospetto, e mi disse con grazia accorta:
– È mio fratello, signore, che non vedo da tre anni. Torno sola d'Europa.
E tremava tutta dall'impazienza. Poi si trattenne discreta:
– Ma forse voi pure:
– No, nessuno mi aspetta, signorina; mi sono appostato per correre presto al telegrafo.
Essa allora pronta e ridente:
– Ebbene, faremo così: voi mi darete il braccio e scenderemo insieme.
E così avvenne ch'io posi primamente il piede sulla terra d'America dando il braccio ad una bella e giovane fanciulla americana che non avevo veduto mai, che non sapevo chi fosse, che scivolò via appena tocca la terra, che non vidi e non vedrò certo mai più, ma la cui compagnia di un minuto, mi parve gentilmente salutevole e di ottimo augurio.
CAPITOLO II.
New-York
New-York, a chi vi giunga d'Europa, si palesa intera al suo primo apparire. Si palesa, non si mostra. L'occhio ne vede una minuscola parte, la mente vi riconosce i segni espressivi dei suoi caratteri. Nessun'altra città forse, è così di subito parlante allo spirito e così sincera. Le belle città digradanti al mare in anfiteatro, dicono di sè il meglio e nascondono le brutture; si sporgono in veduta pittorica mostrando più le cose che le genti e la vita. In New-York, le cose, la gente e la vita vi scolpiscono insieme di maniera che non potete disgiungere una nozione dall'altra. Al più si può dire che primeggi a misura di tempo l'azione. La gran città agisce prima di mostrarsi. Innanzi che appaiano le coste ed i fari della terra americana, dieci, dodici ore prima dell'arrivo vi si fanno incontro le alte vele triangolari dei piloti che scorrazzano al largo in traccia di navi giungenti. Presso i porti europei i piloti s'incontrano là dove ne occorre l'aiuto. Gli Americani fanno di questo servizio uno sport nautico che tradisce la loro temeraria