Tale è la somma delle cose operate da San Gregorio in Sicilia, con ambito e benevolenza; e pur con grande avvantaggio dell'isola. Ei conseguì lo effetto di trarne il danaro e il grano che aiutarono a mantenere Roma. Conseguì parimenti una smisurata riputazione in Sicilia per sè stesso e per la Chiesa di Roma; la fondazione di grande numero di monasteri col danaro dei privati, stimolati dal suo esempio; e l'aumento della dottrina e splendore della Chiesa Siciliana. In fatti, nel corso del settimo secolo i monasteri di Sicilia rivaleggiarono con quei di Roma per ricchezza, numero di frati e onore degli studii; sopratutto del canto ch'era sì in voga dopo i tempi di San Gregorio, e, com'e' pare, anco della sacra letteratura greca che in Sicilia si potea coltivare meglio che a Roma. Pertanto in quella età salivano al trono pontificale il pio Sant'Agatone (a. 678), il dotto e caritatevole San Leone II (a. 682), Conone (a. 686), Sergio (a. 687), e poi Stefano IV (768), dei quali Conone educato in Sicilia, e gli altri tutti siciliani. La Chiesa di Antiochia ebbe in quel torno due patriarchi siciliani: Teofane abate del monastero di Baya presso Siracusa (a. 681), e Costantino diacono della medesima città (a. 683).137 Nè prima nè poi toccò alla Sicilia tanta partecipazione nei negozii della Chiesa universale. L'impulso di civiltà, chè tale era questo al certo nei bassi tempi, dato da San Gregorio, durò in Sicilia fino al tempo che l'isola, tolta alla giurisdizione del papa, ubbidì al patriarca di Costantinopoli. Ed allora il merito degli ecclesiastici siciliani si fe' strada nella nuova metropoli: onde troviamo Metodio siciliano salito a quella sede patriarcale; e Gregorio Asbesta vescovo di Siracusa, San Giuseppe Innografo e altri Siciliani, segnalarsi nelle aspre contenzioni religiose del nono secolo, sì come innanzi dirassi.
CAPITOLO III
Mentre San Gregorio gittava le prime fondamenta della potenza temporale dei papi, un giovane pien di virtù meditava in Arabia su i principii d'una novella religione. La gente ond'ei nacque era in via d'uscire dalla barbarie. Aveva avuto, per vero, l'Arabia, in tempi remotissimi, un periodo di potenza e anco d'incivilimento. Questi s'erano sviluppati, a dispetto della natura, tra un clima ardente e un suolo penuriosissimo d'acque, sì che v'era impossibile ogni agricoltura, fuorchè in qualche lista di terreno; impossibile il soggiorno di grosse e raccolte popolazioni; negato alla più parte degli abitatori tutt'altra vita che la nomade. Donde non è maraviglia se la potenza politica si dileguasse dall'Arabia forse in tempo assai breve, come poi avvenne a quella fondata da Maometto. Dello incivilimento rimase qualche avanzo, nelle sue sedi principali: a settentrione cioè e tra ponente e mezzogiorno, ov'è più fecondo il terreno e l'Oceano tempera l'aere e agevola il commercio. Scomparvero fin anco quegli antichi popoli; dei quali altri emigrò come i Fenicii, altri decadde e menomò, altri, sterminato per violenta catastrofe, lasciò vaghe rimembranze di umana superbia, di abominazioni, di provocata vendetta del cielo.
Così durante il corso delle due civiltà greca e romana, e infino al settimo secolo dell'era volgare, l'Arabia fu poco tenuta in conto tra le nazioni. In questo periodo veggiamo nella penisola due schiatte principali. La più antica, detta di Kahtân dal vero o supposto progenitore, forse il Iectan della Bibbia, occupava le parti meridionali, ossia l'Arabia Felice degli antichi e principalmente l'angolo tra ponente e mezzodì, il Iemen, come il chiamano gli Arabi. Era schiatta mista, parlante due lingue, l'una delle quali analoga all'arabo, e l'altra no; divisa tra la vita nomade e la vita stabile: e le popolazioni stabili, dove date all'agricoltura, dove raccolte in cittadi e intese al commercio, alla navigazione, ad industrie cittadinesche; la parte più opulenta della nazione per molti secoli soggetta dove a piccioli principi, dove ad unica monarchia, in ultimo a due successive dominazioni straniere. Varie tribù erranti di cotesta schiatta, dopo soggiorno più o men durevole nell'Arabia di mezzo, come se lor indole le sforzasse ad accostarsi alla civiltà, se ne andarono verso il settentrione. Quivi fondarono due Stati: l'uno in Mesopotamia che si addimandò il reame di Hira, prima tributario, poi provincia della Persia; l'altro presso la Siria. E questo ebbe per sede Palmira; si illustrò coi nomi di Odenato e Zenobia; e, distrutta Palmira, le tribù, senza soggiornare altrimenti in grosse città, furono note sotto la appellazione di Ghassanidi: comandate alsì da un principe; soggette sempre all'impero romano, il quale occupò anche qualche città della Arabia settentrionale, Petrea, come la dissero i dominatori. L'altra gente prese il nome da Adnân, tenuto discendente di Ismaele. Più compatta della prole di Kahtân, parlava unica lingua; tenea l'ingrato e vastissimo terreno delle regioni centrali. Pastori nomadi o mercatanti di carovana, gli Ismaeliti non ubbidirono a principi; vissero nella rozza franchigia della tribù, anche que' ch'ebbero stanza ferma là dove il luogo ne concedea. Gli stranieri non s'invogliarono giammai di soggiogarli; nè essi l'avrebbero sofferto, se non che alcuna tribù riconobbe, di nome e per poco, i monarchi del Iemen, o i Persiani.
Considerati così gli abitatori dell'Arabia secondo il legnaggio, i due tronchi parranno dissimilissimi l'uno dall'altro; si comprenderà perchè si oltraggiassero a vicenda; perchè la nimistà della schiatta durasse fin sotto la potente unità dell'islamismo, fino alle remote spiagge dell'Atlantico, ove le portò insieme la vittoria. Ma se si riguardi ai costumi piuttosto che al sangue, si troveranno da una banda i soli cittadini e agricoltori del Iemen, dall'altra il rimanente di Kahtân e tutta Adnân; il grosso della nazione arabica, non ostante l'antagonismo di schiatta, comparirà ridotto ad unica stampa dalla vita nomade. La qual condizione sociale, immutabile come i deserti ove errano le tribù, è notissima per tanti ricordi univoci, da Giobbe infino ai viaggiatori d'oggidì: libri sacri, poesie, istorie, romanzi, osservazioni di dotti europei. E vuolsi da noi studiare, perchè, conoscendo gli ordini delle tribù, si spiegheranno agevolmente le vicende della nazione arabica in tutti i tempi e in tutti i luoghi.
La tribù nomade, o, come dicon essi, beduina, che suonerebbe appo noi campagnuola, è saldo corpo politico senz'altri legami che del sangue, senz'altra sanzione penale che la vergogna e il timore dell'altrui vendetta e rapacità. Quivi l'unità elementare delle società non è l'individuo, ma sì la famiglia; nè risiede vera autorità che nel capo della famiglia. Ei comanda assoluto ai figliuoli e a lor prole; agli schiavi fatti in guerra o comperati; ai liberti che rimangono in clientela; agli affidati, uomini stranieri e liberi venuti a porsi sotto la sua protezione: ei li nutrisce, li difende dall'altrui violenza, e, quando