Poppea
Sí; ma frattanto un passeggiero lampo
può di favor sforzato ella usurparsi.
Ci abborre Ottavia entrambi: a cotant'ira
qual ti fai scudo? il voler dubbio e frale
di un tremante signore? A perder noi
solo basta un istante; a noi che giova,
se cader dobbiam pria, ch'ella poi cada?
Tigel.
Che un balen di favore a lei lampeggi,
nol temer, no: di Neron nostro il core
ella trovar non sa. Sua stolta pompa
d'aspra virtú gli incresce; in lei del pari
obbedíenza, amor, timor gli spiace;
quell'esca stessa, ove ei da noi si piglia,
l'abborre in lei. – Ma pur, s'io nulla posso,
che far debb'io? favella.
Poppea
Ogni piú lieve
cosa esplorar, sagace, e farmen dotta;
antivedere; a sdegno aggiunger sdegno;
mezzi inventar, mille a Neron proporne,
onde costei si spenga; apporle falli,
ove non n'abbia; quanta è in te destrezza,
adoprar tutta; andar, venir, tenerlo,
aggirarlo, acciecarlo; e vegliar sempre: —
ciò far tu dei.
Tigel.
Ciò far vogl'io: ma il mezzo
ottimo a tanto effetto in cor giá fitto
Neron si avrà; non dubitar: nell'arte
di vendetta è maestro: e, il sai, si sdegna
s'altri quant'ei mostra saperne.
Poppea
All'ira
tutto il muove, ben so. Meco ei sdegnossi
del soverchio amor mio poc'anzi; e fero
signor giá favellava a me dal trono.
Tigel.
Nol provocare a sdegno mai: tu molto
puoi sul suo cor; ma, piú che amor, può in lui
impeto d'ira, ebrezza di possanza,
e fera sete di vendetta. Or vanne:
meco in quest'ora ei favellar quí suole:
ogni tua cura affida in me.
Poppea
Ti giuro,
se in ciò mi servi, che in favore e in possa
nullo fia mai ch'appo Neron ti agguagli.
SCENA SECONDA
Certo, se Ottavia or trionfasse, a noi
verria gran danno; ma, Neron mi affida.
Troppo è il suo sdegno; troppa è l'innocenza
d'Ottavia; scampo ella non ha. – Grand'arte
oggi adoprar con esso emmi pur d'uopo:
al suo timor dar nome di consiglio
provido; e fargli, a stima anco dei saggi,
parer giustizia ogni piú ria vendetta. —
Signor del mondo, io ti terrò; sol io
terrotti, e intero. Intimorirti a tempo
e incoraggirti a tempo, a me s'aspetta.
Guai, se vien tolto a te il timor del tutto!
Al mal oprar qual piú ti resta impulso;
qual freno allora al ben oprar ti resta?
SCENA TERZA
Tigel.
Signor, deh, perché dianzi non giungevi?
Udito avresti il singhiozzar di donna,
che troppo t'ama. Aspra battaglia han mosso
nel cor tenero e fido di Poppea
dubbio, temenza, amore. Ah! puoi tu tanto
affligger donna, che cosí t'adora?
Ner.
Cieca ella ognor di gelosia non giusta,
veder non vuole il vero. Amo lei sola…
Tigel.
Gliel dissi io pur; ma chi calmar può meglio
le fere angosce di timor geloso,
che ríamato amante? A lei, deh, cela
quella terribil maestá, che in volto
ti lampeggia. Acquetare ogni tempesta
del suo sbattuto cor, tu il puoi d'un detto,
d'un sorriso, d'un guardo. Osai giurarle
in nome tuo, che in te pensier non entra
di abbandonarla mai; che ad alto fine,
bench'io nol sappia, in Roma Ottavia appelli;
ma non a danno di Poppea.
Ner.
Tu il vero,
fido interprete mio, per me giurasti.
Ciò le giurai pur io; ma sorda stette.
Che vaglion detti? Il dí novel che sorge,
compiuto forse non sará, che fermo
fia d'Ottavia il destino, e appien per sempre.
Tigel.
E queta io spero ogni altra cosa a un tempo,
ove mostrar pur vogli Ottavia al volgo
rea, quanto ell'è.
Ner.
Poich'io l'abborro, è rea,
quanto il possa esser mai. Degg'io di prove
avvalorare il voler mio?
Tigel.
Pur troppo.
Tener non puoi quest'empia plebe ancora
in quel non cal, ch'ella pur merta. Ai roghi
d'Agrippina, e di Claudio, è ver, si tacque:
tacque a quei di Britannico: eppur oggi
d'Ottavia piange, e mormorar si attenta.
Svela i falli d'Ottavia, e ogni uom fia muto.
Ner.
Mai non l'amai; mi spiacque ognora e increbbe;
ella ebbe ardir di piangere il fratello;
cieca obbedir la torbida Agrippina
la vidi; i suoi scettrati avi nomarmi
spesso la udii: ben son delitti questi;
e bastano. Giá data honne sentenza;
ad eseguirla, il suo venir sol manca.
Roma saprá, ch'ella cessava: ed ecco
qual conto a Roma del mio oprare io debbo.
Tigel.
Signor,