divisa colpa, a te men pesa. Or sappi,
ch'io, non reo de' tuoi falli, io pur ne porto
la pena tutta: del regnar mi è dato
il miglior premio; in odio a tutti io sono.
Qual mi puoi nuova infame cura imporre,
che aggiunga?..
Ner.
Ei t'è mestier dal cor del volgo
trarre Ottavia.
Seneca
Non cangia il volgo affetti,
come il signore; e mal s'infinge.
Ner.
All'uopo
ben cangia il saggio e la favella, e l'opre:
e tu sei saggio. Or va; di tua virtude,
quanta ella sia, varrommi, il dí che appieno
dir potrò mio l'impero: io son frattanto,
il mastro io sono in farlo mio davvero,
l'alunno tu: fa ch'io ti trovi or dunque
docile a me. Non ti minaccio morte;
morir non curi, il so; ma di tua fama
quel lieve avanzo, onde esser carco estimi,
pensa che anch'egli al mio poter soggiace.
Torne a te piú, che non ten resta, io posso.
Taci omai dunque, e va; per me t'adopra.
Seneca
Assolute parole odo, e cosperse
di fiele e sangue. – Ma l'evento aspetto,
qual ch'ei sia pure. – Ogni mio ajuto è vano
a' tuoi disegni, e reo. Che a sparger sangue
Neron per se non basti sol, chi 'l crede?
SCENA SECONDA
– E con te pur la tua virtú mentita,
altero Stoico, abbatterò. Punirti
seppi finor coi doni: al dí, ch'io t'abbia
dispregievole reso a ogni uom piú vile,
serbo a te poi la scure. – Or, qual fia questa
mia sovrana assoluta immensa possa,
cui si attraversan d'ogni parte inciampi?
Ottavia abborro; oltre ogni dir Poppea
amo; e mentir l'odio e l'amore io deggio?
Ciò che al piú vil de' servi miei non vieta
forza di legge, il susurrar del volgo
fia che s'attenti oggi a Neron vietarlo?
SCENA TERZA
Poppea
Alto signor, sola mia vita; ingombro
di cure ognora, e dal mio fianco lungi,
me tieni in fera angoscia. E che? non fia,
ch'io lieto mai del nostro amor ti vegga?
Ner.
Lunge da te, Poppea, mi tien talvolta
il nostro amor; null'altro mai. Con grave
e lunga pena io t'acquistava; or debbo
travagliarmi in serbarti: il sai, che a costo
anco del trono, io ti vo' mia…
Poppea
Chi tormi
a te, chi 'l può, se non tu stesso? è legge
ogni tuo cenno, ogni tua voglia in Roma.
Tu in premio a me dell'amor mio ti desti,
tu a me ti togli; e il puoi tu appien; com'io
sopravvivere al perderti non posso.
Ner.
Toglierti a me? né il pur potrebbe il cielo.
Ma ria baldanza popolar, non spenta
del tutto ancor, biasmare osa frattanto
gli affetti del cor mio: quindi m'è forza,
che antivedendo io tolga…
Poppea
E al grido badi
del popolo?
Ner.
Mostrar quant'io l'apprezzi
spero, in breve; ma a questa Idra rabbiosa
lasciar niun capo vuolsi: al suolo appena
trabalzerá l'ultima testa, in cui
Roma fonda sua speme; e infranta a terra,
lacera, muta, annichilata cade
la superba sua plebe. Appien finora
me non conosce Roma: a lei di mente
ben io trarrò queste sue fole antiche
di libertá. De' Claudj ultimo avanzo
Ottavia, or suona in ogni bocca; il suo
destin si piange in odio mio, non ch'ella
s'ami: non cape in cor di plebe amore:
ma all'insolente popolar licenza
giova il fren rimembrar debile e lento
di Claudio inetto, e sospirar pur sempre
ciò che piú aver non puote.
Poppea
È ver; tacersi,
Roma nol sa; ma, e ch'altro omai sa Roma,
che cinguettar? Dei tu temerne?
Ner.
Esiglio
lieto troppo, ed incauto, a Ottavia ho scelto.
Intera stassi di Campania al lido
l'armata, in cui recente rimembranza
vive ancor d'Agrippina. Entro quei petti,
di novitá desio, pietá fallace
della figlia di Claudio, animo fello,
e ria speranza entro quei petti alligna.
Io mal colá bando a lei diedi, e peggio
farei quivi lasciandola.
Poppea
Tenerti
dee sollecito tanto omai costei?
Oltre il confin del vasto impero tuo
che non la mandi? esiglio, ove pur basti,
qual piú securo? e qual deserta piaggia
remota è sí, che t'allontani troppo
da lei, che darsi il folle vanto ardisce
d'averti dato il trono?
Ner.
Or, finché tolto
del tutto il poter nuocermi le venga,
stanza piú assai per me secura ell'abbia
Roma, e la reggia mia.
Poppea
Che